Cultura

Essere autrici indipendenti 2- l’Autorialità

Buongiorno! Con oggi riprende la serie di post dedicata al selfpublishing.
La prima parte è stata inaugurata parlando de la vita pubblica dell’opera, e cioè quanta visibilità ha un’opera, e del discrimine infondato tra testo edito e testo selfpublishing. La missione è continuare nella demolizione dei pregiudizi e oggi tocca a quelli sull’essere o non essere autorə indipendenti.

L’articolo di oggi parla di chi crea il testo: parleremo quindi dell’essere autorə indipendente, soprattutto selfpublishing. Più specifico, vi parlerò della mia esperienza di autrice, edita certo, ma soprattutto indie per il medium del fumetto con Chiantishire. A me piacciono entrambe le modalità, con l’editore c’è uno scambio di informazioni intellettuali diverse da quelle che invece posso scambiare nelle selfarea. Sono due mondi particolari e ognuno ha le sue specifiche e necessità, che vedremo.

Ora, occupiamoci della questione alla base di essere autorə in generale, non solo Selfpublishing. C’è un momento che determina un prima o un dopo? Un attimo prima eri una persona normale, poi un ragno radioattivo ti ha morso et voilà ora sei autorə? Le domande sono tante, per esempio:

Si è autorə perché abbiamo scritto una storia, o perché l’abbiamo pubblicata o venduta?

Non è una questione semplice da dirimere perché la situazione del nostro testo non è perfettamente aderente e sincronizzata alla nostra.

Essere o non essere autorə

Per quel che mi riguarda io sono autrice perché so raccontare una storia sul mio medium principale, il fumetto, e lo faccio. Ma conosco i rudimenti anche dell’illustrazione e le “stazioni” per farlo con un racconto e per un romanzo. Il mio è un caso piuttosto particolare perché i media che uso come forma espressiva sono visivi e testuali. Sono molto diversi tra loro, e spesso conflittuali.
Ecco perché non ritengo che la disciplina di una persona sia accertabile tramite l’applicazione di classificazioni di forma imprenditoriale postume terze. Si è autorə solo quando il proprio libro viene edito da una casa editrice? Allora Van Gogh non era un pittore perché nessuno gli ha mai comprato un quadro in vita. Visto quanto è semplice creare paradossi quando si fanno figli, figliastri e orfani?
Quindi, per quanto mi riguarda, se applico questo concetto per me, è ovviamente applicabile anche per gli altri: l’autorə è chi ha creato l’opera.

Fantascienza estrema? No, Treccani:

1. Si chiama AUTORE la persona che è all’origine di una cosa, che ne è artefice o che la promuove.

In questo caso io sono un’autrice (fumettista) perché ho disegnato e pianificato un progetto a fumetti. Non smetto di esserlo perché Bonelli non mi ha mai stampata. Semplicemente nel corso della mia vita non ho ancora avuto occasione di potermi confrontare con le loro dinamiche narrative. Forse lo farò quest’anno, forse non lo farò mai. Ma sta di fatto che io un fumetto l’ho prodotto già, e quel fumetto esiste ed è leggibile.

Da questo punto di vista quindi capite che è una questione sottile quanto strana. Fare mestieri che terze parti vorrebbero definire in maniera escludente mediante il tipo di rapporto con un imprenditore, invalidando continuamente la possibilità che le forme autonome e individuali possano esistere. Come dire che se il padrone della fabbrica ti licenzia smetti in quel momento di essere un operaio, come se tu non lo fossi mai stato, in uno schizofrenico gioco di definizioni e distorsioni semantiche. Il cui scopo è sempre separare la persona dalle sue attitudini creative e soprattutto di separare queste attitudini da un mondo del lavoro regolarizzabile che dovrebbe garantirle entrate proprio dall’applicazione di quelle attitudini, e non astratte promesse di vanagloria.

Ma si è scrittori solo quando si scrive, o anche il resto della giornata? Sono uno scrittore anche quando ho concluso il mio testo? E quando per “lavoro” mi occupo di altro? Lo sono quando sto facendo altro e mi coglie all’improvviso il lampo di un’idea? Sono uno scrittore se faccio Selfpublishing?

Sì lo siete.

Perché sono tutti i momenti che concorrono a portare a compimento il vostro testo, la cui mira è creare una storia soddisfacente per il vostro pubblico.

Ma la parte interessante della faccenda è che si tratta di una condizione che genera una controparte. Perché se siete scrittori posso presupporre con certezza che da qualche parte c’è un vostro libro. Esistono libri senza autorə, ma non esistono autorə senza libri. Anch’esso ha delle caratteristiche che, forse, dovremmo analizzare brevemente?

Io sono autrice se pubblico uno specifico tipo di libro? Dato che nel corso degli anni mi è capitato di essere invalidata perché i miei testi e i miei fumetti sono (gasp!) fantasy e fantasy-storico, pare che si è sempre pronti per ogni ambito fare figli, figliastri e orfani. Dove finiremo, Contessa, se anche il fantasy vuole essere chiamato libro? Che potete anche chiamarli estintori, sempre libri sono. Anche quelli in Selfpublishing.

Come vedete, lo schema è lo stesso che abbiamo visto nell’articolo precedente. Ci sono i libri, e poi i libri veri che hanno un editore. E ci sono i libri e poi i libri veri che sono di verorealismo. Ci sono gli autori e poi gli autori veri che hanno un editore. Ci sono gli autori e poi gli autori veri che lo fanno per hobby e non si fanno pagare un centesimo. E così via, in un infinito gioco di invalidazioni e di definizione di confini nell’estremo tentativo di rimarcare di continuo una zona comfort elitaria e vivere della discrepanza tra figli, figliastri e orfani. C’è una soluzione a questo disco? Sì, e per me la soluzione è spaccarlo.

Ora che abbiamo capito che l’autorə non è altro che sé stesso, e cioè fonte originale di storie, il cui destino è solo secondario, brevemente soffermiamoci sulla sua creatura:

Il libro

Sempre secondo Treccani, che ci restituisce molte informazioni gustose, abbiamo:

Complesso di fogli della stessa misura, stampati o manoscritti, e cuciti insieme così da formare un volume, fornito di copertina o rilegato.

E poi:

Locuzioni varie, relative alla stesura, stampa, pubblicazione, vendita.

Vi sono altri significati, la cui rilevanza rimando per un discorso più ampio nel post seguente dedicato specificatamente al libro.

Dunque, la Treccani ci fa sapere subito una cosa per me molto interessante. Il libro è un complesso di fogli, ma non specifica se il contenuto debba essere esclusivamente testuale. Ecco quindi che come libro posso qui usare questa descrizione perché si consideri in questo articolo anche il libro illustrato e il fumetto. Sebbene siano tre prodotti tra di loro ben distinti e ognuno con diverse necessità, consideriamo l’uso di libro (io uso appunto volume) comune. Stiamo parlando dell’essere autori in selfpublishing.

Il libro quindi è un complesso di fogli di egual misura, tenuti assieme per formare un volume con una copertina. Identifica il prodotto la cui lavorazione prevede stesura, stampa, pubblicazione e vendita.
E VENDITA.
Sono le quattro azioni base propedeutiche per il nostro discorso sull’essere autorə. In questo discorso quindi considero la naturale destinazione del libro come quello di finire tra le mani del pubblico. Magari a un prezzo congruo per poter mantenere la filiera alle sue spalle.

Non è specificata in nessuna maniera, da nessuna parte, nessuna legge regolamento, l’obbligo nemmeno morale che il libro sia edito da una casa editrice perché sia identificato come un libro vero. Questo è un passaggio di pura gestione imprenditoriale legittima. Sia che la mia scelta sarà di collaborare con marchi editoriali sia che ci penserò da me. Nella vita di un libro, questo avviene dopo la sua nascita perché lo scopo del testo è di essere leggibile.

Proprio per questo è interessante la parola prevede: si prevede, si crede, si suppone che sia naturalmente questa la fila di passaggi, ma non tutti. Non tutti gli autori infatti scrivono per la vendita.

Scrittorə senza portafogli

Ci sono due categorie importantissime che non si avvalgono di tutte queste quattro parti del processo. Ma, come abbiamo visto, sono scrittori al pari di altri, editi e Selfpublishing, perché hanno terminato la loro opera.

Queste due categorie sono:

  • Autofitcion: persone che scrivono esclusivamente per sé stesse e pochissimi eletti attorno a loro. Romanzi, poesie, componimenti, diari. Molto spesso si tratta di testi di guarigione, redatti per superare traumi fisici ed emotivi e che quindi, essendo molto personali; la loro missione si risolve quando si accorgono di averne terminato la compilazione. Ci può essere un passo di sottoporre questi testi ad altri occhi (medici, parenti, amici) per concludere il percorso. Altrimenti, non è detto che la persona voglia davvero andare in stampa: magari gli piace solo, appunto, comporre. E questo atto di concludere la stesura li rende, ovviamente, scrittori. Ma lo sanno solo loro.
  • Fanfiction: sono lunghi componenti che si basano esclusivamente sul rapporto di fiducia episodico tra chi scrive e chi attende il nuovo capitolo. Si tratta di materiale che viene fruito quasi esclusivamente in maniera gratuita, tramite piattaforme online (in OITNB c’è un bellissimo esempio invece di fanfiction cartacea), con uso di personaggi già noti. La cosa interessante del mondo delle FF è che tutti hanno un nickname: chi scrive, chi legge hanno tutti dei loro nom de plume. Serve per poter frequentare la piattaforma. È forse ciò che attualmente somiglia di più ai romanzi a puntate sui giornali Ottocenteschi, quando gli autori dovevano inventarsi situazioni estreme per portare la storia il più lontano possibile. Il rapporto coi fan è molto simile: si pensi solo all’impatto emotivo che la morte di Sherlock Holmes causò nei lettori. A differenza degli scrittori di autofiction, chi scrive fanfiction ha orizzonti di consegna veloci. Capita spesso che da questo mondo, dove esistono storie che proseguono da anni, se non decenni, scaturiscano poi casi editoriali molto famosi. Ma tutto nasce dal fatto che chi scrive, la prima volta, ha stabilito che la prima stesura era leggibile, e quindi finita. L’ha resa nota su una piattaforma senza nessuna intermediazione.
Suzanne Warren (Uzo Aduba) di Orange is the new black, che nel telefilm diventa autrice di ff selfpublishing
Suzanne Warren (Uzo Aduba) di Orange is the New Black

Liberi siete voi, e con voi lo sono io

Questo concetto è tipo fondamentale.
Capisco che possa sembrare una questione di lana caprina Ottocentesca ma pare che più in là non siamo andati.
Ah, l’Ottocento, la causa e la risoluzione di ogni male (non è vero).
La libertà di stampa e di opinione sembrano cose molto scontate. Ma se pensiamo che tra l’Ottocento e noi abbiamo avuto dittature e tentativi censori di ritiro di riviste per i motivi più ridicolmente puritani (soprattutto i fumetti!), la musica cambia un po’.
Perché nell’Ottocento abbiamo il trionfo degli ideali delle libertà individuali e un momento allucinatorio purtroppo breve di idee di paesi laici. E, tra queste idee pazzerelle, vi era anche la libertà di parola e di critica in un periodo in cui criticare il re era un reato. Reato che ancora perseguibile in paesi come la Spagna. Pensate a quanta stampa sulla libertà, sui diritti dei lavoratori e delle madri lavoratrici, antimilitare, accesso alla scolarizzazione è stata creata. E venduta e osteggiata a botte di censure preventive, inseguimenti e sequestri.
E quanto a tutto ciò ha contribuito il fumetto e la letteratura fantastica parlando di avari spaventati da fantasmi, di comunità che scelgono la cooperazione e non la guerra di logorio, e anche semplici scenette esplicitamente sessuali che spaventano a morte i benpensanti. Il controllo morale e la censura ufficiale sono sempre stati il nemico numero uno degli autori. In larga parte si producevano o trovavano un editore tipografo pazzo quanto loro.

Ecco perché, per quanto pubblicarci in selfpublishing oggi può far sorridere qualcuno, la possibilità che si possa fare comunque è fondamentale, anche se stiamo parlando di innocui romanzi romance, high fantasy e horror. Non riusciamo a pensare che possa essergli impedito per legge di portare alla tipografia il proprio libello. Di farlo stampare a proprie spese e andare alla fiera in paese a venderlo, che sia la raccolta di canti popolari o un pamphlet critico contro il potere. Questa è un’opera a stampa, che oggi ha l’obbligo solo di avere in chiaro tutte le informazioni di responsabilità al suo interno:

nome dell’autore, luogo di stampa e, se esiste, dell’editore (Legge 8 febbraio 1948, n.47, art. 2).

La legge stessa quindi ammette, per definire cosa è materia a stampa e cosa no, l’esistenza materiale di un prodotto senza un editore (in questo caso si parla specificatamente di riviste e periodici). In tal modo anche questa parte possa essere normata.

È proprio durante l’Ottocento che il ruolo dell’editore diventa importante: erano piccoli imprenditori con una tipografia che avevano ovviamente tutti gli interessi a vendere più carta stampata possibile nonostante i problemi doganali e censori che questo o quel regno dava loro, e la bassa alfabetizzazione diffusa. Diciamo anche che vendere gossip o materiale lì lì sul filo della morale era anche molto remunerativo. Tra i titoli più richiesti c’erano proprio i foglietti di idee innovative, egualitarie, scientifiche, tutto ciò che a chi vive con una corona o una tiara sulla capoccia non vede di simpatia.

C’era anche ovviamente un marasma di materiale più leggero, fatto di gossip, romanzi, poesie, componimenti. Ma come si nota, tra le ultime cose a comparire c’è il diritto d’autore, il riconoscimento genitoriale della penna.
La natura di chi scrive così come la natura del testo sono questioni molto voluttuarie e piuttosto recenti, nella lunga storia del libro.

Ci sono solo due casi che come autrice indico come disgraziati: il fatto che sussistano pubblicazioni a carattere criminale di stampo nazifascista, e le EAP (editori a pagamento).

Le EAP e le doppio binario millantano servizi che poi, alla fine della fiera, sono meno che sufficienti a livello di qualità. Tutte le copertine che ho visto delle EAP sono squallide, impaginate male, con font orrendi, foto sgranate e scelte male rispetto alla qualità della stampa. Se dovete giustificare una spesa per una copertina bella cercate dei grafici, per l’editing cercate degli editor e via discorrendo. Certo, nessuno vi vieta di fare da voi, ma sappiate che per quanto siate dei cani randagi con la grafica i risultati con le EAP non sono diversi, quindi perché dar loro dei soldi quando potete tenerveli o meglio investirli?

Siamo finiti nella zona plaid

Sarebbe facile se la nostra opera fosse solo selfpublishing o edita, perché in mezzo ci sono un oceano di possibilità. Una di queste è ciò che io chiamo la sedicente zona plaid.

Ufficialmente un autore viene pubblicato da una casa editrice, e lì finisce il suo lavoro. Nella realtà, può capitare che la casa editrice abbia di fatto solo pensato di stampare il libro e appiccicarci un codice isbn. Come abbiamo detto nel post precedente, molte case editrici piccole o media non arrivano nelle librerie. Spesso sapete che un libro esiste solo perché qualcuno ve ne ha parlato. Il libro quindi, anche se edito, non ha nessuna finestra di vita pubblica, per tanto non ha poi una visibilità diversa da un selfpublishing.

La zona plaid è quella fascia di vuoto che si genera quando chi pubblica con una casa editrice deve correggerne i vuoti di professionalità. L’autorə quindi ha scritto la storia, corretto e autorizzato la stampa, ma deve trovarsi la copertina, per esempio. O farsi la correzione finale bozze da sé. O prodursi card pubblicitarie, organizzarsi firmacopie, presenziare agli eventi fieristici come venditore al tavolo, avere già migliaia di lettori prima del lancio del libro. Va sopperire a tutta quella serie di mancanze sulla cura e promozione del proprio testo che spetterebbero alla casa editrice e che possono essere anche dichiarate in fase di trattazione.

In sostanza, l’autore fa un lavoro di corvè, riempiendo il vuoto della professionalità mancata con il proprio tempo. Professionalità che finché è in selfpublishing è sua univoca responsabilità.

Non si tratta di eap, o doppio binario: chi scrive non paga per l’editing, in quel caso è sempre eap. È solo l’oculata assenza di servizi che porta l’autore a sopperire per il proprio titolo: una zona comfort (come un plaid) che coincide semanticamente con un carico di impegno per l’autorə superiore alle aspettative, e in rimbalzo un risparmio per la casa editrice.

Ma anche in self c’è una situazione simile: chi scrive in selfpublishing deve supervisionare molti aspetti che di norma competono ad altre professionalità. Se avete evitato le EAP, le Doppio binario, nessuna casa editrice vi garba e avete deciso di optare per il selfpublishing certo che sarà complicato, ma dovrete anche farvi largo in una sconfinata pletora di sedicenti servizi editoriali che promettono risultati così stellari che forse dovrebbe sorprendervi che non sfornino dei Grisham ogni 17 minuti. Ecco quindi che riuscire a trovare le professionalità adatte per voi è importante per non perdere i pochi soldini che avete come self. Ma cosa vuol dire essere autori in selfpublishing?

Essere autrici selfpublishing

Vi porto il mio caso perché esperienza diretta e personale di una sequenza di elementi a cui si deve badare quando ci si deve occupare di tutto per il proprio testo. Niente di diverso dall’essere i genitori single di un bambino di 3 anni che deve essere nutrito, vestito, lavato e possibilmente non lasciato da solo più di cinque minuti se non volete trovare la cucina in fiamme.

Nel mio caso, io sono autrice di fumetti indie. Presto o tardi (non è questione di se, ma di quando) manderò in stampa anche dei miei testi di romanzo in selfpublishing, perché per una serie di motivi ritengo che le avventure del mio pupone, Rhys, siano condivisibili solo in questa modalità.

Ho scelto per me una definizione ben precisa: sono autrice di fumetti indie. Io sono, in questo caso, fumettista.
Questo vuol dire che io disegno un titolo a puntate, che si appoggia su una gabbia classica (BD) e che è indipendente da linee editoriali esterne. Quindi io, per Chiantishire, sto lavorando su un formato di fumetto. Non è un graphic novel, non è una gabbia libera. È un fumetto d’azione a puntate, niente di così diverso da qualsiasi albo si possa trovare in edicola.

A questo, dovete aggiungere anche il fatto che il mio genere tipico è il fantasy-storico, genere che sembra molto diffuso, non fosse che da storica posso dirvi che ai test che faccio su ogni titolo che trovo, romanzo o fumetto, edito e non che sia, ne passerà si e no il 5%. Il resto è più una dignitosa storia in costume, ma che di Storia, a volte non ha nemmeno le date.

Come autrice in selfpublishing devo supervisionare a tutti i passaggi. Come editrice, se io lo fossi per conto terzi, sarei di certo quel tipo di imprenditrice antipatica vecchio stile che sta a rompere dettaglio per dettaglio, quindi la situazione non cambia molto: esaspero solo meno persone.

Cosa cambia? Due fattori.

La prima è la totale libertà di gestire il patrimonio narrativo della mia opera. Quando Chiantishire era solo un piccolo portfolio e l’ho sottoposto ad alcune case editrici, mi è stato in un caso recriminato che le storie di mitologia con protagoniste femmine, senza una vera lovestory, e queer, non funzionano. Ora capite che non stiamo parlando di aggiustare errori sintattici o di migliorare un’inquadratura, stiamo parlando proprio di vivere in un perpetuo 1952. Le storie di mitologia non funzionano, tra l’altro, è un adagio vecchio quanto il fantasy non funziona.
Io da autrice fantasy e storica trovo inaccettabile che nel mio paese sia stata dato per sconfitta che noi non produrremo mai niente perché conviene di più importare dall’estero che fare un serio lavoro di fidelizzazione dei pubblici puri, in questa cosa schizofrenica per cui o arrivi già come la Rowling di Venegono Superiore oppure resti col tuo testo in un angolo perché nessuno avvia delle serie considerazioni sulla fidelizzazione dei pubblici puri. Io come autrice posso parlarne fino a sgolarmi, ma lo farò sempre da sola con altre persone che già, cuori miei, sono sensibili sulla questione.

L’altro è, banalmente, aver sempre sotto controllo la materia economica: qualcosa di più complicato di “se la stampa costa X, il guadagno è Y”. Saltando il passaggio della distribuzione ho una percentuale più alta di ricavi rispetto a un contratto con royalities. Tuttavia, mancando proprio l’editore e la distribuzione (che, però, come dicevo nel post precedente, non è scontata), ho pochissima visibilità perché non potendo io contare su un patrimonio imprenditoriale ho avviato una produzione indipendente, praticamente domestica.

Qualcuno mi aveva chiesto proprio per il fattore economico: diciamo che se i contratti editoriali propongono tra 6 e 15% di royalties, le spese vive nel selfpublishing si aggirano attorno al 25/30%. Il resto di quel 70%, una parte si volatilizzerà in spese accessorie, come per esempio il tempo personale che l’autore Selfpublishing passa a curare il marketing o a fare promozione in sé. E poi l’editing per i testi, l’impaginazione, la creazione di gadget per il lancio… sono due fatiche diverse a fronte di guadagni sempre risicati. Anche perché in Italia scrittura, disegno, grafica non sono lavori veri.

Uno strumento molto valido che consiglio, sia per scrittori che per fumettisti, è il crowdfunding: ma deve essere fatto in maniera ben pianificata, limpida e per sé, non per conto terzi o altre mezze EAP.

Un elenco sparso degli aspetti che devo seguire quando mi organizzo come autrice self:

  • Scrittura della storia sull’arco narrativo [completo] di tutte le run.
  • Scrittura dei dialoghi di tutti gli episodi.
  • Reperimento fonti e check della loro veridicità.
  • Sketching: character design, e poi costumi, oggettistica e piante per gli edifici.
  • Storyboard.
  • Matite, chine, colore, lettering.
  • Manutenzione della pagina digitale: scansione, lettering, formato web e formato stampa.
  • Osservazione dei calendari fieristici.
  • Pianificazione delle spese.
  • Lavoro redazionale con Storiebrute.
  • Invio capitoli ai betareader e successiva correzione.
  • Redazione testi collaterali, copertine, grafiche.
  • Pianificazione comunicazione marketing e social.
  • Impaginazione, stampa, ‘distribuzione’.
  • Aggiornamento: corsi, novità, nuovi stili, sketch.

Praticamente è come avere tutte le schede del party di D&D e tirarsi i dadi da soli.

Come si diventa autrici self?

Sembra banale, ma non lo è: con la pratica.

Io ho potuto permettermi di cominciare a disegnare in autonomia Chiantishire perché ero arrivata a un momento in cui mi sentivo sicura di poter cominciare a pubblicare il mio lavoro senza paura nonostante il fumetto sia un medium in cui si imparano cose nuove costantemente. Ho quindi collezionato una serie di pareri, critiche, consigli e impressioni da chi era già più avviato di me, facendo tesoro di tutto, anche di un parere che può risultare molto antipatico. Se guardo le prime tavole ovviamente le percepisco come vecchie, ma ancora funzionano. Posso essere un’autrice self perché ho scelto che potevo cominciare. Avevo già lavorato con tavole per conto di altri, e questo mi ha aiutato molto a capire cosa volevo fare, cosa volevo raccontare e infine come volerlo raccontare. Il fumetto, rispetto alla prosa, ha questo vantaggio e svantaggio.

La mia esperienza di autrice indie di fumetti deriva da una cosa semplice: non trovavo dei fumetti che mi piacessero con le regole del mercato italiano, così ho cominciato a produrre le storie che avrei voluto vedere. Nello specifico, in Italia non esistono fumetti che siano fantasy storico che abbiano una buona documentazione, che abbiano protagoniste e logiche femministe (non femminili, la cosa non è coincidente e su questo argomento delle personagge torneremo un’altra volta), personaggi divini e ambientazione antica non romano-centrica. Mi piace poi la paginata francese, mi piacciono i personaggi vestiti in maniera punk rock. Mi piace la mitologia strutturata, senza facilonerie. E tutto questo assieme fa il mio Chiantishire , che disegno tra alti e bassi ormai da alcuni anni.

Ho potuto mettermi a produrre Chiantishire perché avevo imparato a gestire molti elementi, quindi avevo maturato la sicurezza di poter gestire sia quelli che conoscevo sia quelli con cui avrei dovuto fare amicizia.

La mia esperienza non è quella di tutti i selfpublishing, ma se parlerete con molti autori noterete che c’è sempre un equilibrio di elementi: scrivono di ciò che piace loro, che li ha entusiasmati, dei loro personaggi.
Questo porta due situazioni narrative strutturate. Nel selfpublishing potreste trovare sia titoli confortevolmente vecchia scuola, e cioè redatti da fan di titoli ritenuti ormai un po’ ageè che conoscono quelle ambientazioni e riescono a ricrearle, che titoli incredibilmente strutturati e innovativi. Perché chi li ha creati ha imparato a gestire i vari elementi di sceneggiatura ma propone le sue soluzioni narrative, che spesso non coincidono affatto col mainstream. La forza del selfpublishing infatti sta nella portata della fantasia degli autori che possono liberamente usare argomenti, tematiche e aspetti che il mainstream, per sua stessa struttura, riesce a maneggiare molto meno.

Nessuno dei due è migliore dell’altro, sono due modi di raccontare la propria storia. Una storia di elfi e nani può essere sorprendentemente innovativa nonostante la sua cornice confortevole, così come una storia di vampiri pirati spaziali viaggiatori nel tempo scritta come se l’autore fosse Marinetti ubriaco può rivelarsi molto più tradizionale. Le soluzioni sono infinite.

Il lavoro quindi, che si sia editi o selfpublishing, è pressapoco lo stesso riguardo al testo. Un autore pigro produrrà un testo banale sia esso etichettato come bestseller che come selfpublishing. Semplicemente, come best seller, è solo un po’ più ipocrita.

Ma quando dovrò andare in selfpublishing anche coi testi, che aspetti dovrò affrontare? Le scelte sono infinite a seconda delle necessità. Io più che selfpublishing la chiamo editoria a dispersione: perché avrò bisogno di simili professionalità che anziché trovarle nello stesso ufficio le troverò sparse sul territorio. E magari chissà, professionalità che non hanno mai lavorato a contatto con testi perché ho avuto un’idea strana per il marketing.

Ogni autore segue i propri criteri (il budget disponibile è tra questi).
Nessun testo sarà mai perfetto e pronto per la pubblicazione, è un problema che aveva già Platone. Quando si decide che per la propria opera è il momento, vi sentite pronti e avete imparato a stare un po’ a galla intellettualmente senza braccioli allora siete autorə pronti per la vostra prima uscita.

Un debito di 80 dollari per un cavallo e un whisky

Come detto nel post precedente, e come siamo arrivati finalmente a questo punto, essere autorə selfpublishing vuol dire curare tutta una serie di aspetti che di norma, attualmente, vengono curati da altre professionalità quando si è all’interno di una casa editrice per il proprio progetto editoriale che può avere degli esiti narrativi diversi dalle richieste del mercato mainstream. Questo è ciò che dovrebbe garantire quella freschezza di lettura che manca invece nel mercato tradizionale.

Ma curarli da sé non vuol dire fare da sé.

Una cosa a cui tengo molto io come autrice è la mia curiosità verso le opere degli altri autori, nel cercare cose nuove. Nuove storie su carta, nuove persone, nuove professionalità, il confronto tra i nostri stili e le nostre soluzioni artistiche che mi sorprendano, soprattutto che mi facciano dire “quella storia, quel disegno vorrei averlo fatto io!”. Nelle self del fumetto più o meno ci conosciamo tutti e ci aiutiamo quando si tratta di montare gli stand, farci la guardia, scambiarci consigli e cenare assieme.

Gli autori self devono seguire personalmente tutti gli aspetti della propria opera, incarnando senza saperlo forse tutte le questioni che gli editori di un secolo fa già si occupavano nel loro piccolo. Per tutti gli aspetti a cui non possono fare da sé – grafica, comunicazione, editing soprattutto- devono arrivare a un punto di compromesso tra il proprio risicato budget di persona comune e il preventivo che richiedono a un libero professionista. Quello che io chiamo editoria a dispersione perché quando sarà il momento dovrò andare a cercare una serie di professionalità per riunirli in una squadra di lavoro.

Personalmente preferisco i fattori umani: mi servirà un editor professionista che già abbia lavorato su testi fantasy. Mi servirà poi la grafica, l’impaginazione, di certo mi servirebbe del social media manager: avete visto i miei social? Sono orrendi, ma non posso farci molto di più di quanto non faccia già ora, ed è una cosa che vorrei tantissimo delegare. Al contrario, altre autrici sono molto più brave di me e questo aspetto non è per loro una spesa.

Tuttavia l’offerta di sedicenti servizi editoriali è molto ampia e trovare le proprie professionalità è anche quello un vero e proprio lavoro. L’idea è che ormai la platea di elezione non sia più il pubblico puro, bensì il pubblico creativo.

L’attenzione di aspiranti autorə viene contesa a botte di booktrailer, cover reveal, card indicative con keyword che una persona normale non saprebbe se deve leggerle o mangiarle. Promesse di vero successo, di fare vera scrittura, di schemi piramidali, prontuari di regole da seguire evangelicamente, post che spiegano la rava e la fava, norme di scrittura, autobranding. Si è costantemente bombardati da informazioni e offerte che hanno il potere di farti un po’ dubitare del lavoro che hai fatto fino a quel momento (il mio profilo ig è abbastanza sgargiante? La mia stories è stata vista? Il trailer lo ha condiviso un numero adeguato di persone? Ho abbastanza stelline su amazon?).
Il risultato? Promesse di ricette facili di successo che se ridotte ai minimi termini non sono altro che il classista se ti impegni (e mi paghi) ce la fai e avrai successo. Non sono direttamente mirate a migliorare il lavoro di un testo in modo che l’autore la volta dopo sia autonomo nel Selfpublishing. Solo negli ultimi 3 mesi ho visto diverse ‘servizi editoriali’ con copertine “professionali” che in realtà sono solo templates free di immagini stock nemmeno ritoccate.

Concetti in realtà molto diversi dal delegare ad altre professionalità. Perché, può sembrare un paradosso, ma l’autorə self è un professionista quando sa a chi delegare ciò che non sa fare.

L’autorə self è un professionista quando sa a chi delegare ciò che non sa fare.

Un autore self professionale ha fatto editare il proprio testo, ha trovato una soluzione graziosa per la grafica senza usare quelle merde di AI, sa parlare bene del proprio libro e dei suoi contenuti. E’ reperibile sul web, si fa una promozione dignitosa, non fa spam fastidioso, partecipa alle conversazioni sui suoi temi.

Niente di più e niente di meno di quello che fa un autorə di qualsiasi altra natura.

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