Cultura

Essere autorə indipendenti 1- la vita pubblica dell’opera

Essere autorə indipendentə – parte 1

Nelle settimane passate il Salone del libro di Torino ha annunciato un drastico cambiamento nella gestione di alcuni spazi espositivi. Chi pubblica da indipendente in selfpublishing avrà uno spazio risicato.

Per questo, rimando agli ottimi post social de The Mantovanis, sia sul Salone che sulla situazione piuttosto disastrosa che gli scrittori vivono in generale. Sono state tantissime le persone che pubblicano in self già a scrivere il loro disappunto, che mi hanno ispirato la scrittura di questi post. L’argomento è talmente vasto che anziché consegnarvi un trattato ho deciso di spezzarlo in tre articoli divisi per aree tematiche. La partecipazione alla vita “pubblica” dell’opera; essere autorǝ in|dipedente; l’oggetto in sé, il libro.
Ho deciso di partire dal fondo di questa catena. Un concetto che sembra una questione tutto sommato di vanità, ma importantissimo se applicato al rapporto che si instaura tra chi scrive e chi legge: la partecipazione alla vita pubblica dell’opera.

Perché senza una vita pubblica, e quindi una visibilità materica, il pubblico come ci trova?

Da cosa è partita questa riflessione?

Il Salone del libro di Torino, per l’edizione ’23, ha creato uno spazio recintato autori, autrici e autorǝ in selfpublishing in uno spazio piccolo. Con solo 25 copie a cranio, per un costo di oltre 300 euro (a cui si aggiunge il costo del trasporto e della vita da fiera).
Copie che non potrebbero essere manutenute direttamente da loro. Se contate queste spese + il costo stampa/copia la matematica ci dice immediatamente che non si va in pari. A meno che non si viva a 300 metri dal Lingotto in una tipografia e si è stampato prima dei rincari di carta, inchiostri e componenti. Questa scelta è presentata come un alzare il livello qualitativo (come qualità e quantità si saldino, a meno che non siate dei monaci amanuensi?). Su questa orrida argomentazione ci tornerò più avanti, e specificatamente anche nel terzo articolo. Ma non si tratta dell’unico ragionamento in questo senso, poiché sono tante le situazioni di recintazione culturale del selfismo.

La mia posizione autoriale:

Io sono autrice edita da case editrici e autrice di fumetti indipendenti: già vivo negli ecosistemi delle self. Anzi, spesso devo muovermi come un caccia-raccoglitore tra tre o quattro realtà diverse a ogni evento. La situazione che stanno vivendo i libri selfpublishing per certi versi non è molto distante da quella che i fumetti indie italiani hanno già vissuto. Certe argomentazioni le abbiamo infatti già affrontate, masticate e discusse. Mi sembra che le difficoltà siano ciclicamente le stesse perché il focus è sempre sull’esistenza dell’autoproduzione, e non sullo stato della cultura in sé.

Quindi la mia posizione è che lo spazio self non deve essere limitato, ma addirittura ampliato. Tutti gli spazi per artisti e piccoli editori dovrebbero essere aumentati.

Questo perché è un falso mito che l’autorialità self sia una pericolosa concorrente dell’autorialità edita. L’unico pericolo per l’industria culturale del libro edito è infatti la sistematica mancanza di fondi, di spazi, la difficoltà economica di aprire librerie indipendenti in zone decentralizzate, la centrocommercializzazione delle grosse catene, i numerosi tagli e la scarsa attenzione che tutti i sistemi della cultura umanistica vivono in Italia, dal museo all’archivio, e catene di lavoro ormai atomizzate e iperprecarizzate. In Italia non si stampano troppi libri o fumetti: semplicemente non si cercano nuovi pubblici, e i titoli non sono comunicati adeguatamente.

Il mio essere autrice edita non è minacciata da un’altra autrice self, così come una casa editrice non è realmente minacciata da un’etichetta. Si tratta di diversi attori che hanno bisogno solo di diversi spettacoli, ma della stessa risorsa: un palco aperto al pubblico.

Non solo: gli spazi dovrebbero essere tutti aumentati, dato che parliamo sì di enti fieristici e commerciali, ma del settore culturale. Gli spazi commerciali dovrebbero aumentare per tutti. Le spese/spazio proporzionarsi alle possibilità delle aziende più minute e che oltre una certa soglia di mq non si dovrebbero riscattare. I palchi aumentare per le presentazioni di più realtà diverse, le case editrici e l’editoria selfpublishing essere raccordate meglio. Le luci abbassate (ebbene sì, le luci in tutte le fiere sono troppo forti). L’esistenza di più forme di autorialità rendono il mercato più sfaccettato e portano storie diverse ai pubblici. Perché stiamo sempre parlando sì di cultura, ma noi con essa ci lavoriamo e la fruiamo: se io non trovo spazio in un festival per parlare dei miei fumetti, lo spazio lo prendo e ne parlo fuori.
Se i luoghi deputati alla cultura si serrano in modo così escludente che non tocca una grande azienda ma ricade su quelle più piccole e le affatica, alla fine la scelta sarà tra chiedere 10 euro per fare un giro dentro una libreria monomarca come si trova in un centro o chiedere 10 euro per fare un giro dentro a un salone delle editorie.

La vita pubblica del libro

Erodere lo spazio espositivo a chi non pubblica con case editrici vuol dire limitare la vita pubblica del loro testo, che vivrebbe solo di piattaformato online.

Ma cosa intendo con vita pubblica?
La vita pubblica è quando il vostro libro può formalmente essere notato e sfogliato dai pubblici liberi.
Ci sono vari gradi. Quello base, il minimo sindacale, è: la copertina del libro è in uno store online, privato (il proprio sito web e/o dell’editore) o generalista (Amazon, IBS, etc). Ma oltre a essere il rettangolino in vetrinetta online, quel libro quante possibilità ha di essere sfogliato dal pubblico? E il pubblico quante possibilità ha di fermarsi 45 secondi per valutare se è compatibile con sé?

I vari gradi di questa vita pubblica, per selfpublishing ed editi, li ho identificati così. Il libro:

  • ha un codice ISBN e può essere ordinato in un negozio.
  • È su uno scaffale di una libreria (fisica).
  • È su uno scaffale di una libreria e si vede di copertina (fisica).
  • È in una vetrina di libreria (fisica).
  • È facilmente trovabile sullo store di amazon.
  • Potete presentarlo in un luogo fisico.
  • Potete venderlo a un evento culturale.
  • Potete venderlo a un evento culturale fieristico.
  • Vi hanno o vi siete organizzati dei firmacopie.
  • Partecipate a interviste (stampa e radio).
  • Partecipate a interviste (blog e social).
  • Potete parlare a una conferenza su un argomento trattato nel vostro libro.
  • Il vostro titolo è inserito in un circuito di biblioteche e la copia è depositata a Firenze.

Queste sono tutti momenti in cui il libro vive una vita pubblica, dove compare, può essere visto, discusso e valutato dal pubblico per sé.
Non vi sarà sfuggito che in questo elenco non ho inserito due categorie, e cioè: I premi e le stellinature.
Ho deciso di non includere questi due parametri perché in questo caso non sto parlando di presunte scale di qualità del testo in sé, quanto della sua reale possibilità di partenza di avere visibilità. Poiché di questo stiamo parlando: visibilità.

La visibilità – selfpublishing

L’elenco che ho fatto non riguarda solo il self, ma anche i testi editi da case editrici che molto spesso fanno fatica a organizzarne. E se non sono semplici nemmeno per un’azienda, diventano gargantuesca per autorǝ selfpublishing.

Avete mai provato a cercare un editore medio/piccolo in una libreria non specializzata sul suo argomento? Provate, ma non le troverete difficilmente: in centro a Milano le case editrici medio-piccole che conosco non sono presenti su nessuno scaffale. In alcuni casi, il fantasy, hanno organizzato ora per autori, così ho trovato grosse mensole dedicate a 4 o 5 nomi famosi, stranieri e defunti. Il resto ammucchiato più per casualità che per un indice ragionato.

Scena da "Scrivimi una canzone", con Hugh Grant e Drew Barrymore (2007), commedia romantica a tema musicale.
Quando cerco i libri e fumetti dei miei amici in libreria.
(“Scrivimi una canzone”, 2007- adoro)

Chi pubblica self è difficile compaia sugli scaffali di una libreria, a meno che non viva nell’area di circuiti virtuosi di librai lungimiranti.
Ma possono contare appunto sulla partecipazione alle fiere. Che sia la fiera del pizzocchero o un festival del libro, sono le finestre che permettono di portare il loro libro a spasso, nella vita pubblica, di poter essere sfogliato e giudicato dal pubblico. Le fiere locali e piccole spesso sono dei graziosi contenitori per tutte le attività culturali della zona. Permettono a chi scrive in selfpublishing di avere un piccolo spazio accanto a chi dipinge e produce marmellate, spesso con il corteo dei rievocatori. Diverso è un festival o salone culturale, che si tiene in un luogo fieristico chiuso, con biglietto e monotematico quasi (libri e/o fumetti). Eventi e presentazioni strutturate, catalogazione sul sito, ospiti. Il giudizio che il pubblico attua sulle opere avviene sfogliandole, o valutando la copertina.

Quindi tramite il vestitino editoriale dell’opera (una copertina gradevole, un font leggibile). La presenza dell’autorǝ (che è sempre una marcia in più poterci scambiare due chiacchiere). Le sue capacità di comunicazione e vendita al pubblico (punto meno romantico forse, ma realistico). Avere spazi che permettano al selfpublishing di esibire i propri titoli e anche di poterne parlare all’interno dei festival deputati senza che questi si sovrappongano o erodano gli spazi delle altre forme di editoria (editoria tradizionale, piccola, media, grande, l’associazionismo, le iniziative scolastiche, enti culturali, etc., in sostanza: avere spazi per tutti) è un concetto che ritengo essere molto importante per la struttura della nostra storia e industria culturale. Io arrivo dal fumetto, e per me è essenziale tanto quanto naturale che ci sia uno spazio di espressione diverso dall’edito.

La “Qualità”

A questo si unisce il concetto fastidioso di una sorta di necessità di un controllo qualità dell’opera. Aspetto che ho incontrato spesso anche durante alcuni festival del fumetto, e che approfondirò nei prossimi post.

Si fa coincidere semanticamente l’idea che autoproduzione sarebbe una sorta di bassa qualità. L’autoproduzione (sia fumetto che libro) sarebbe meno curata perché mancherebbe la curatela che solo un team aziendale dovrebbe possedere.

Il punto è proprio questo: il problema che si giudichi a monte, per la stessa natura di genesi diversa dell’opera, la necessità che una manifestazione controlli un prodotto e poi valuti la sua partecipazione a pagamento.

Anche io produco i miei fumetti: ne scrivo la storia, la disegno, creo la copertina, e poi mando in stampa il volume. So che è un lavoro difficile da fare in cinque, figurarsi da sola. Mi chiedo: il mio fumetto verrebbe valutato per il numero di typo che ha e che posso correggere nell’edizione seguente, o perché sarebbe giudicato più per la sua natura fantasy-storica? Un selfer viene giudicato perché ha una brutta copertina impaginata male, o perché è una raccolta di poesie?

Perché il punto è proprio questo: che cosa è qualità e cosa no? Nel mio caso è semplice. Mi aspetto che se in un festival dell’editoria chi scrive in selfpublishing debba essere giudicato prima per la qualità, dovrebbero saltare anche gli spazi incoerenti. Tutti gli stand di carabattoleria che vendono t-shirt, cover e tazze che sfoggiano stampe scaricate da internet rubando materiali agli artisti. Dovrebbero saltare gli EAP, le sette religiose che approfittano degli eventi culturali per fare proselitismo, le propagande criminali. Poi parte degli stand di cibo appiccicaticcio, gli stand-marketing vuoti e di oggetti che non c’entrano nulla, e tante altre ridicolaggini. Perché se un libro che scrivo io deve essere sottoposto a un controllo qualità preventivo allora anche quello che ha fottuto l’illustrazione ad artisti per stamparci una brutta t-shirt e venderla a 20 euro deve essere verificato come materiale originale.

Il Diritto Qualità dei pubblici

A scanso d’equivoco non sto difendendo il selfpublishing dalla perfida industria pesante, anzi. Sto evidenziando qui la disparità di trattamento e degli ostacoli che un titolo trova nell’affacciarsi al pubblico. Situazioni varie che avvengono spesso in numerosi scenari culturali.
Ci sono difficoltà di diversa natura in tutti gli aspetti di genesi e gestione della vita di un libro. Non si risolveranno magicamente ponendo un Guardiano sulla Soglia all’accesso di un solo percorso.
Gli ostacoli che una piccola casa editrice e un autore selfpublishing incontrano sono molto simili, e concentrarsi sulla natura dei secondi per non risolvere i reali problemi sistematici che affliggono i primi non è una soluzione. Entrambi concorrono alla vita culturale dei pubblici con diversi livelli di qualità, sia che questa sia nulla che alta.

In questa sede, dato che mi sono soffermata sulla vita pubblica del libro, mi soffermo anche sulla valutazione di qualità. Dato che appunto ho trattato qui l’argomento di visibilità – e cioè il libro ha sempre diritto ad arrivare al pubblico indipendentemente dalla sua nascita -, la qualità la pongo solo sul suo essere materiale: l pubblico ha diritto a incontrare un libro ben confezionato.

Un libro per essere di qualità decente non deve essere sciatto. Quindi, per fare alcuni esempi semplici:

  • Aspetto editoriale: il titolo è leggibile e le informazioni sono reperibili dalla prima alla quarta di copertina.
  • Il testo al suo interno è stato sottoposto a un editing ed è impaginato in maniera gradevole.
  • Font leggibile e immagini sono stampate alla qualità giusta.
  • Se un fumetto, tutte le storie al suo interno hanno una loro coerenza grafica.
  • L’autorǝ è facilmente reperibile online (sito web, pagine social).

E, ultimo ma non ultimo:

  • La copertina e le illustrazioni al suo interno sono originali o elaborazioni grafiche pagate e segnalate di licenza.

Perché se invece si tratta di elaborazioni AI lasciate tutto sul tavolo e andatevene senza rimetterci un centesimo.

Questi sono le coordinate base per misurare come a modino e dignitoso l’oggetto da dare al pubblico per sfogliare. Da questo momento in poi, tutto sta nell’occhio del pubblico, e niente di quello che direte, farete e impedirete fermerà il pubblico dalla sua scelta seguente: leggere o meno quel libro.

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