Liberazione di Milano
Cultura

La sobrietà non ci appartiene

In queste settimane ho davvero il tempo misurato per concludere lavori di lungo raggio, e ho trascurato parecchio questo mio blog. Ho in attesa molti post fiammeggianti da revisionare, ma visti gli accadimenti dell’ultima settimana ho ritagliato minuti per questo dedicato alla Liberazione. Quando sarà pubblico io sarò al lavoro, e spero sarà leggibile abbastanza. Mi pare un periodo in cui stia diventando necessario usare ovvietà come pietre miliari (pagare la gente per il lavoro, non trattare male le persone, stai idratato), e io ne avevo necessità di tenerlo fisso.
Buon 25 aprile, ci vediamo in corteo.

Bella Milano.

Celebriamo la Liberazione

Qualche anno fa, un politico mediocre tentò di lanciare un’idea a suo dire bellissima: modificare l’estetica delle celebrazioni per il 25 aprile.
Bastava molto poco: togliere il rosso, un colore troppo aggressivo, rimpiazzarlo con un celeste più vicino ai gusti del suo Maestro, e accorciare la parola liberazione in libertà. E infine, accompagnare il tutto con nomi eccelsi testimonial della libertà, tra cui una che ha piacevolmente collaborato coi nazisti.
Di certo un visionario, per i suoi tempi: non fosse stato così precipitoso e pieno di sé, se avesse avuto una certa pazienza, il trucco qualche anno dopo gli sarebbe anche riuscito meglio, fino a oggi con la storiella della sobrietà.
Invece ricordo un 25 aprile in cui la mattina lavoravo fino al primo pomeriggio, e mentre mi accingevo a raggiungere il corteo di Milano poco prima dell’arrivo in piazza del Duomo, mi passò accanto questo gruppetto che, per magia dei social, divenne sconfinato, con questi cartelli perfetti e patinati, cercando di piazzarli in mano ai passanti per dei selfie che, giustamente, li scansavano. Il tutto fu così surreale da sembrare quasi una scena felliniana, mi stupirono queste persone così prone.
I cartelli finirono per gran parte sul selciato, nemmeno nei cestini.

Quest’anno sono gli Ottant’anni dalla Liberazione. Ho rievocato questa situazione per la sua simbologia perché l’intento di quella farsa ridicola era di dare un colpo di spugna.
Un colpo di spugna, è finita, siamo tutti amici, abbiamo scherzato, la questione chiusa, siamo tutti uguali senza nessuna colpa né responsabilità. Nel soprassedere al tema portante della giornata (celebrazione della Liberazione) e fondativo della Repubblica (antifascismo), si è tentato di obliterare questa natura per equiparare, decolpevolizzare, minimizzare chi ancora oggi “ha i busti sugli scrittoi e la Costituzione sotto i piedi”, e fa fatica ad accettare. In pratica, se si crede sia una celebrazione divisiva, si è fascisti, e nessuno piangerà per l’assenza. Ma queste iniziative mirano a rendere inoffensiva la celebrazione, per poter riammettere nel circo sociale la teppa che ha un profilo poco limpido.
Può sembrare una semplice semantica, ma le parole contano. Libertà non è una contrazione di Liberazione: sono due concetti diversi. Non si celebra una libertà vaga e priva di definizione, ma una specifica Liberazione. Una liberazione da un regime dittatoriale che per vent’anni è partito dal prendersela coi lavoratori e finire con tutti gli altri: politici, donne, disabili, poveri, gli stessi soldati mandati a crepare in posti assurdi e se questo non avveniva dimenticati là. Sarebbe semplice, pensare che lì fuori ci siano bande di trucidi orgogliosi di ciò che sono, ben definiti e riconoscibili. Ma non è così.

Sono partita da questo stupido episodio di cartelli azzurri per sottolineare una cosa: senza una parte di astanti compiacenti, sarebbe impossibile che quella piccola banda di fascisti possa agire indisturbato. Senza quelli che erano i liberali di allora negli anni Venti, spaventati dagli scioperi dei loro lavoratori, e senza quelli che oggi fanno da stampella ai voti di un partito parafascista e si offendono quando qualcuno gli riporta questo dettagliuccio storico stranamente coincidente.
La gran parte di questi pseudo, para, forse, avevo judo hanno la caratteristica principale del fascista: la codardia e l’infantilismo.
Frasi buttate là e poi ritrattate, blocco di manifestazioni ma era un errore, avete frainteso, stavo scherzando. Agire e fermarsi a metà dell’azione perché ancora non è abbastanza il momento giusto. Inquinare le acque su faccende già chiuse, discusse storicizzate e paragrafate nei testi scolastici.
Tentativo dopo tentativo per spostare il confine tra accettabile e non accettabile sempre un po’ più in là. E quando beccati con le mani nella marmellata, giù a balbettare scuse nemmeno un tredicenne delle medie beccato a copiare il temino. Così orgoglioni di quello che sono da tentare di mimetizzarsi nello sfondo. Ognuno più realista del re nel tentativo di farsi notare sparando la cazzata più grande nel piccolo circoletto. È bastato pronunciare la parola sobrietà sfruttando l’improvvisa morte di un papa che tanti han colto la palla al balzo per sbattere i tacchi e vietare cortei, canzoni e celebrazioni. Un eterno giorno della marmotta dove potremmo tutti pensare a cose migliori, dove ormai visto che oggi coincide col mio compleanno, posso finalmente dire sono troppo vecchia per queste stronzate.

Comunicazioni poco chiare

Il problema è che da anni tutte le volte che si parla della Resistenza italiana, sui media principali, assisto a un assurdo balletto. Il tema della Resistenza viene costantemente invisibilizzato, anche nei giorni deputati. Se non si sta parlando di qualche disordine da qualche parte, si parla di quanto è stato brutto il fascismo, delle cose brutte che sono successe coincidenti nel Ventennio, di campagne militari lontane dall’Italia, di armamenti con un elenco infinito e noiosissimo di modelli di carri armati, fucili, divise, macchinari di trasmissione del regime italiano e tedesco. La semplificazione e il continuo rendere inoffensivo una tematica ha portato a questo problema. In un paese che dipende ancora molto dai media mainstream principali (testate | tv) e poi collateralmente da libri, podcast e web (intendo pagine di divulgazioni capaci, tra attività di blog, social e altre forme), il fatto che sui primi due la presenza di format dedicati è molto più lasca che sui secondi secondo me è un tema. A parte alcune occasioni fortuite o lasciate alle iniziative private, didattiche o territoriali, c’è in proporzione molto meno rispetto all’ennesima panoramica su Rommel o su Ciano. L’interesse per armamenti e battaglie si spegne quando si parla dell’Unità d’Italia e della Resistenza. Il mio televisore, per esempio, si sente molto emiliano: quando lo accendo, lo trovo sempre sintonizzato sul tgr dell’Emilia Romagna e non su quello della Lombardia. Un altro mondo proprio, con interviste, iniziative e altro che nel mio, più su Piazza Affari, non vedo mai. Si preferisce purtroppo la vecchia questione: la Storia non è per gli storici. Affidiamola a giornalisti, che stemperano meglio nel ri-raccontare le cose, sono più bravi a raccontare… Beh, no. E basta avere degli storici in studio.
Resistenza? Non pervenuta.
Partigiani? Quanti ne conosciamo, riusciamo a enumerarne almeno cinque? No.
Ogni tanto capita che qualcuno si ricordi che Pertini era in zona e che Matteotti non ne è uscito dritto, ma vicino agli anniversari.
Adesso c’è la gran moda di scoprire che un proprio parente era -gasp!- fascista, nel 1935 e di farci su un drammone di 500 pagine.

Dichiarazione di guerra a PIazza Venezia.
{Assurdo Maria Luigia quanto fosse statisticamente
improbabile, eh? Lo dicevano già in un film di Totò e Peppino.}

Forse perché non abbiamo avuto un cinema che riuscisse a concretizzare l’identità partigiana quanto Hollywood è riuscita con lo sbarco in Normandia? Perché la nazione distrutta ha preferito dare priorità a mettere assieme i cocci e i ruderi? Per una serie infinita di situazioni che poi ha portato Pertini nel 1969 a non stringere le mani ai fascisti a Milano?

Quale che siano state le ragioni, nei prodotti che vedo girare da qualche anno è tutto una sorta di sensazionalismo su quanto fosse orrore il fascismo, con confini però molto sfumati. È l’esatto contrario di quando fanno i documentari sui beni culturali, dove si abusa della parola bellezza. Non ti spiegano nulla, sai solo che è tutto bellissimo. E qui è tutto orrore. Indicibile, senza spiegazioni. Mostrando come per vent’anni uomini mediocri abbiano fatto folgoranti carriere, maneggiato potere, sbarazzandosi degli avversari democratici, invaso paesi, armamenti e compagnia cantante, il tutto con le immagini di repertorio. È come tentare di raccontare ai ragazzini Spiderman partendo da due ore su quanto è fico il Goblin e il suo aliante. Basterebbero 10 minuti di vita di Pertini per rimettere in bolla l’audience.

Ci sono dozzine di storie di persone che hanno fatto parte della Resistenza, o che hanno aiutato, dal semplice tipografo che teneva aperte le porte per far passare i ragazzi rincorsi dai soldati a quello che faceva i chiodi per fermare le camionette naziste a Roma, dal tranviere che ha salvato un bambino ebreo da un rastrellamento a tutti i più famosi nomi delle Brigate Garibaldi.
La Resistenza coinvolgeva chiunque, dai bambini agli anziani, dal Tirolo fino alla Sicilia, in diverse parti e diversi apporti. Molti ci hanno lasciato le penne, eppure si è presa ‘sta piega di raccontare solo uno stretto punto di vista. Se si vogliono cercare le loro storie, le si trovano nelle sezioni ANPI, nelle targhe, nei ricordi di amici e parenti, di quanti sopravvissuti sono diventati testimoni, nei collettivi artistici, musica libri corti e fumetti, scrittura e associazioni di quartiere. Negli studi di storici giovani, che pubblicano saggi e ricercano e mantengono viva la metodologia e per fortuna ogni tanto passano su canali mainstream. Bella Ciao è tornata in auge negli ultimi anni anche perché qualcuno chiese di non cantarla, e le band fecero l’esatto contrario sul palco.
Come ricordava Francesco Guccini, La gente dopo la guerra aveva una voglia di ballare che faceva luce.
Le figure dei partigiani, che nella loro dimensione si rifacevano ai Garibaldini dell’Unità d’Italia, oggi invece rischiano di perdersi come nelle foto slavate d’epoca. E non perché il tempo ha fatto il suo corso e la loro identità è stata assorbita dalla Storia, ma per un continuo logorio dell’identità stessa di Liberazione Antifascista.

La sobrietà non ci appartiene

Concludo questo lungo sproloquio con questo: Sobrietà è un richiamo idiota. Il tentativo pavido, infantile e puerile, perfettamente in linea con l’essere fascista. Non ci si accolla la responsabilità delle proprie azioni, non si è orgogliosi di quello che si è, ma si preferisce perdurare sulla tensione costante di un fil di lana. Un eterno non-detto, dove non c’è bisogno di ordinare perché qualcuno, da qualche parte, sbatta i tacchi e obbedisca per compiacere. In questa costante tensione ridicola, imbarazzante e infantile in cui si vorrebbe finalmente urlare ai 4 venti che si smania per lucidare la pelatona del busto in salotto, ma non lo si può fare perché non è “socialmente accettabile”. Può essere uno scivolone, un malinteso, l’importante è essere educati, presentabili e perbene, poi va bene tutto: se si è pettinati beni con la giusta cravatta e il tono di voce dimesso, si può chiacchierare di vietare gli scioperi dei lavoratori, incarcerare chi protesta e chiedere le fonti ai giornalisti d’inchiesta. Non si ha il coraggio di ammettere ciò che si è, perché vorrebbe dire sublimare la propria essenza nell’avversario di una Repubblica antifascista, per quanto scassata, a pezzi, zoppa, stanca, che arranca.
E essere avversario non vuol dire essere i cattivi, peggio: vuol dire avere addosso la fatica e la responsabilità di ricoprire il ruolo. Di dover provare di essere all’altezza della situazione, e purtroppo quello è il campionato professionistico in cui giocano il KKK, i Nazisti e i cattivi a loro ispirati, da Sauron all’Agente Smith.

I cortei del 25 aprile non possono essere sobri e disciplinati per loro stessa natura. Così come non può esserlo il Pride, il Saint Patrick Day, le manifestazioni per le stragi terroristiche e tragiche (crolli di dighe, ponti, frane, tutte figlie di interventi antropici). La Liberazione non è un ballo di gala.
I cortei sobri e disciplinati sono quelli religiosi, militari e istituzionali. Nemmeno le celebrazioni degli alpini per gli avvenimenti più emotivi della Grande Guerra sono sobri.
I cortei del 25 aprile e del Pride hanno una componente: il dionisiaco.
Questa componente è necessaria perché è imprevedibile, personale, dal basso, condivisa nelle sue forme più disparate. Il corteo viene abitato da diverse identità, tutte riunite sotto un unico intento e denso di emotività.
Nello specifico del nostro corteo del 25 aprile, dove abbiamo gente da ogni parte del mondo che oppressa conosce Bella Ciao, è naturale, per me, che si trovino diverse bandiere di popoli che in questo momento storico sono oppresse nella loro patria d’origine. Il corteo del 25 aprile è come una macchina del tempo: mentre noi festeggiamo 80 anni dalla Liberazione, e implicitamente stiamo comunicando che è possibile farlo, è possibile essere liberi per almeno 80 anni, abbiamo accanto a noi persone che stanno vivendo oggi quell’anno 0. e poiché la Liberazione dell’Italia è stata possibile per diverse identità, in diversi momenti e luoghi, è naturale che la sua natura sia composita e non standardizzata, perché non è una marcia militare. Nel corteo ho trovato negli anni donne argentine, burkinabè, curdi, salvadoreni e infine ucraini e palestinesi.

Abbiamo gruppi musicali, associazioni, carri, bambini, anziani, testimoni diretti e indiretti. Non può essere ordinato per questa stessa natura dionisiaca, di un qualcosa che arriva nell’ordine apollineo precostituito per ricordare che c’è anche una parte rivoluzionaria. Il problema schizofrenico è che il 25 aprile dovrebbe essere invece istituzionale, qualcosa che i rappresentanti stessi delle istituzioni dovrebbero essere orgogliose di celebrare ed essere cerimonieri. Invece è l’unica liturgia civile dell’anno in cui sembra quasi si debba chiedere il permesso di celebrarla e cantare.

Come uscire da questo impasse?

La Resistenza era fatta da persone comuni, soprattutto ragazzi e ragazze sotto i trent’anni, spesso di mestieri umili che hanno dovuto imparare a farla.
Non ho soluzioni, se non quelle puramente naive di chi è cresciuta con storie semplicione.
Come contro il Nulla, queste situazioni si risolvono solo agendo. Agendo senza necessità di essere l’eroe, ma agendo.
Riscoprite le vite delle corone dedicate ai caduti che trovate.
Andate a votare, pure fosse Paperino.
Interessatevi al lavoro dei giornalisti d’inchiesta.
Diventate archeologi e scazzottat- ah no, questo no.
Partecipate alle manifestazioni.
Difendete gli spazi pubblici, dall’aiuola alla biblioteca.
Condividete le notizie sui vostri social.
Difendete i vostri amici.
Siate vigili nei luoghi pubblici e prestate attenzione a chi ha bisogno.
Andate a sentire concerti nella vostra zona.
State attenti.
Leggete.
Perché i libri in caso di necessità vengono stampati con spigoli mica per nulla.

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