Cultura

I poteri delle intellettuali

Settimana scorsa è venuta a mancare Michela Murgia, a soli 51 anni.

Michela Murgia - foto in posa e sorridente
Michela Murgia – foto dal web, in Mare di Libri

Non l’ho mai conosciuta se non tramite la sua figura pubblica e il suo lavoro più di intellettuale che di autrice, nelle sue poliedriche iniziative e aspetti.
Non ho infatti mai letto un suo romanzo in sé, non avendo mai trovato l’occasione adatta, quindi non ho mai familiarizzato con il suo modo di architettare il narrato e di modulare la realtà in modo che sia filtrata attraverso la specula della sua prosa.

Ritengo che siano sempre due sentieri diversi, il narrare una storia e il parlare della realtà. Sebbene la seconda confluisca sempre – sempre – nella prima, la prima ha un grande potere, vantaggio e importanza: chi racconta infatti lavora sulla struttura e quindi può controllare l’esito della trama.
Controllare gli eventi di una trama non è semplice, anzi. Riuscire a governarne le dinamiche e disciplinarne l’esito in modo da fornire a chi legge il finale più soddisfacente possibile è una delle cose più difficili da fare per chi scrive storie. Ecco perché ritengo che quando una persona creativa si muove pubblicamente in questi mondi, tra il racconto e la realtà, conoscere il lavoro in entrambi è molto interessante, proprio per capire come i due aspetti alla fine collaborano.

Diciamo che nel panorama delle persone intellettuali è stata tra le mie persone preferite e che ha contribuito soprattutto a una cosa molto importante, e cioè a darmi un due dita di fiducia, molto diluite, al parco intellettuale italiano. Parco per cui negli anni ho perso sempre più stima in questo eterno talent show di chi riesce a tenere meglio la palla in equilibrio sul naso.
Per due motivi molto semplici: è sempre stato chiaro il suo pensiero senza dover ammainare una bandiera per issarne un’altra e, di conseguenza, ha sempre dato gli strumenti concettuali agli altri per poterne ponderare, criticare e ribattere il pensiero.

Si è sempre battuta per salvaguardare la complessità dei punti di vista e delle opinioni dietro a questioni che sui social e nei talkshow pseudointellettuali tv vengono appiattite e spianate.
Sembra una questione elementare, ma v’assicuro che non è semplice come sembra, avere a che fare con ultraquarantenni che dopo aver beccato qualche briciola di notorietà perché han firmato un paio di testi si credono di avere la verità in tasca su ogni argomento, soprattutto quelli che non conoscono, e che alla prima avvisaglia di maretta pensano che cambiare il colore delle vele li porti in salvo, e dove con un perbenismo ridicolo pensano che va tutto bene e che c’è sempre un equidistanza tra tutto.
Perché per me opinione è quando mi si argomentano cose tipo la Geologia non è una vera scienza, è meglio star trek di star wars? Perché la gente tiene i nani di gesso in giardino? Il racconto autobiografico di autore intimista cecoslovacco morto suicida è pessimo. Non lo è quando si deride la gente che non arriva a fine mese e sta in fila per un pasto decente.
Capisco possa sembrare una questione semplice perché pensavo fosse stato chiarito in terza elementare quando ti costringono oltre a scuola a frequentare pure l’oratorio, ma pare non sia così.

Questo per me è molto importante sapere con quanta limpidezza si può parlare con qualcuno o leggerne il pensiero critico. Sapere dove abbiamo visioni diverse che non sono in conflitto, anzi,, ma entro certi assoluti.
Poiché io pure sono così dritta. Avere la consapevolezza che qualcuno con una miglior prosa della mia fosse “là fuori” ad accollarsi il diritto di parola e pure di essere criticata con un modus simile, cioè di sentirsela ‘sta responsabilità di portare letteralmente un punto di vista in studio, al podcast, in redazione. Di esserci, di stare in quello spazio, di parlare e di essere ascoltata.

Io sono meno pragmatica e più spiccia, non così signora come lo era la Murgia. Io sono barbarica, mi spazientisco con poco e soffro pure della sindrome di faccia da stronza. Lei era colloquiale, diretta, paziente, civile, sempre aperta al dialogo con le diverse parti e pronta a mettere sul tavolo le problematicità e a indicare l’importanza delle parole e di chiamare le cose col proprio nome.

Faccio questo microarticolo su Michela Murgia proprio perché il suo lavoro e la sua persona sono stati per me molto importanti sia come autrice che come studiosa: nel lavorare alla mia tesi di laurea magistrale, dedicata alle autrici di fantastico, trovai tangenzialmente alcuni suoi interventi dedicati a Le Nebbie di Avalon di Marion Zimmer Bradley. Poiché il fulcro del discorso è proprio questo: il punto di vista. Come autrice, molte delle sue riflessioni mi hanno portato a riflettere a certe strutture che uso.

Nel panorama intellettuale italiano infatti c’è una rincorsa, in ogni ambito, a voler rinnegare fermamente due cose: la popolaNità e la dimensione fantastica.

Un vero e proprio condensato di classismo: se ti lamenti che “tutti” scrivono, che “tutti” possono leggerti, che “tutti” possono giudicare la tua opera con delle recensioni, dove è chiaro che con “tutti” non si intende proprio tuttitutti ma la possibilità che uno specifico strato di popolazione possa anche solo pensarci. E se non ti da fastidio che i libri siano sempre più costosi, le librerie private e le biblioteche pubbliche sempre meno; se inoltre senti la necessità di squalificare un intero ecosistema narrativo che fino a ieri l’altro era il 70% della produzione ed era ciò che era cantato nelle corti, beh, per me è classismo.
Anche all’interno stesso della materia, dall’interno del fantastico, voler a tutti i costi abdicare alla dimensione del diletto nella lettura per andare a cercare improbabili rappresentanti italiani nel passato di ‘fantastico’ a tutti i costi solo per sindrome di inferiorità nei confronti del mercato anglosassone è ridicolo.
Come è ridicolo andare a pretendere chiavi di lettura sempre più intellettuali, astratte e filosofiche nei prodotti fantastici fa parte tutta dell’approccio assurdo che il mondo culturale italiano ha nei confronti di sé stesso. Deve essere sempre più culturale, sempre più esclusivo, sempre più elitario, sempre più sul pezzo, parlare sempre più di massimi sistemi, sempre più tra esperti, e sempre più pesante e sempre più addolorato. Disdegnare chi legge per diletto o trova diletto nel leggere dei testi ‘classici’, chi prova solo a darne una lettura personale. Tutto viene sempre convogliato in dimensioni intoccabili e incriticabili, maneggiate solo da una ristrettissima cerchia di persone, i lettori considerati un male necessario o al più tardi qualcosa che deve essere educato dall’alto grazie a prodotti pensati per semplificità.

Michela Murgia è nel mio orizzonte degli eventi la prima intellettuale che scriveva di vita vera, che era presente nei discorsi pubblici, che univa in sé diverse istanze che raccontava di come fosse anche una formidabile lettrice di fantastico, da Tolkien alla Bradley. E di come oltretutto, in questo eterno Gattopardo dove niente cambia affinché tutto cambi, avesse pure giocato un po’ di ruolo.
Immaginate ora un qualsiasi intellettuale italiano che ammette che nel suo ultimo lavoro personale è stato molto confortato dall’ultima giocata fatta su World of Warcraft.

Vorrei dire che ‘fortunatamente’ ste menate di lana caprina se le fanno solo tra loro, ma il problema è che “loro” sono anche il primo battaglione che pensa, costruisce, gestisce e architetta i libri che piovono sottostante a noi.
In pratica se io a valle faccio fatica a trovare il vostro libro fantastico in una libreria è perché a monte ci sta questa gente qua che pattuglia i mood su cosa è trendy e cosa no. I Gatekeepers de “romanzi di autore intimista cecoslovacco morto suicidia copie vendute 1” che sono sempre impilati in ogni libreria, mentre io per cercare un’edizione decente di qualsiasi altra cosa devo peregrinare per la città manco dovessi trovare il libro dei morti di Imothep.

Ecco perché ritengo che averne una, almeno una, di autrice, che serenamente ti diceva che leggeva Tolkien e altri in un ambito che sarebbe equivalso a entrare in un salotto con un tacchino vivo in testa è importantissimo: il punto di vista è il fulcro.

Purtroppo nella mia tesi ho analizzato poco il suo lavoro, focalizzandomi soprattutto sul discorso fatto per l’opera de Le nebbie di Avalon.
Ora, non è questo lo spazio per stare a discutere di tutte le questioni della Bradley (mi servirebbero almeno 30k battute, per dire), soprattutto le più problematiche.
Considerate solo che se avete +35 anni e siete donne, è sicuro al 99% che da ragazzine l’unica autrice di fantastico donna che avete visto in libreria è stata o la Marion Zimmer Bradley con le Nebbie di Avalon o Anne Rice con Intervista col Vampiro.
Fine. Non c’era altro.
Poi abbiamo scoperto i manga e Buffy l’ammazzavampiri, ma lì per lì a guardare gli scaffali delle librerie c’era da piangere, tra i manualetti su come essere femmine e i libri alla Nicholas Spark.

La Murgia era molto fan de le nebbie di avalon.
Lo sono stata anche io, tipo a 13 anni, quando sì l’ho letto ma c’era qualquadra che non mi cosava e ci ho messo letteralmente anni a capire cosa, oltre lo scempio fatto sulle edizioni e sul ciclo di Darkover. E io a 13 anni mi sentivo Wow! a leggere i libri delle “ragazze grandi”, perché le nebbie di Avalon lo avevano tipo TUTTE le donne più grandi, soprattutto le wicca hippy spiritual magic new age. Mi facevano sempre un sacco di complimenti perché leggevo cose da grandi, e credo che questo conti molto per un libro: non è il numero di copie sparpagliato, ma se il tuo libro genera l’effetto di accorpare le persone e saldare legami di amicizia, allora è riuscito. Io non potrei mai abbandonare la mia copia de Le Nebbie di Avalon proprio per motivi personali e per tutto il mio vissuto grazie a quel libro, ma non per questo è impermeabile.
Tuttavia l’importanza che ha avuto il momento in cui è uscito il romanzo della Bradley (parliamo degli anni Ottanta) non si può declassare o depennare o opacizzare. Quindi parlarne con annessi e connessi tutti i problemi, come con ogni opera di autori e autrici problematici, è importante proprio perché i discorsi non possono essere polarizzati in si o no, in quanto appunto discorsi.

L’analisi che fece Michela Murgia era molto importante, perché riguardava l’importanza del punto di vista e di chi lo possiede.
Non solo perché Le nebbie di Avalon era un retelling delle cronache arturiane viste da Morgana (e, tra l’altro, è ancora oggi l’unico retelling in cui Morgana è Morgana, e cioè una donna che affronta i problemi con la magia e la conoscenza, non una viziatella che trova risposte con una spada in mano come un eroe qualsiasi come capita nei retelling qualsiasi), quindi più che un retelling è un side-questing. Ma perché la Bradley centrò un punto importante in quella storia proprio nel rapporto tra le sacerdotesse di Avalon e i druidi: il potere e la sua gestione alla soglia di un nuovo tempo.
Quindi, trovato questo e analizzato, si apre un mondo di consapevolezze, riflessioni, sclerotizzazioni, problemi. Il fantastico non è quello che permette a una donna di impugnare una spada, per quello basta la realtà. Il fantastico ci dice che può gestire il potere in maniera diversa da quello che conosce chi legge.

C’erano molti aspetti della figura complessa di Michela Murgia che ho stimato, ma un paio con cui non ho mai familiarizzato per motivi molto personali che mi rendono in genere incredibilmente diffidente.
Ma non era il suo caso.
Nonostante con un paio di trattazioni non mi sono mai trovata d’accordo, poiché sentirli mi causava di momenti di paradosso, l’ho sempre ascoltata con molto interesse nei suoi vari interventi.
Non era infatti importante come, ma il fine era sempre lo stesso, solo per sentieri diversi.

Questi sono i poteri delle intellettuali. Ricordare la complessità, l’importanza delle parole, di nominare le cose col proprio nome, affrontare i problemi, vestirsi e indossare i propri ideali e, anche, divertirsi.

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