Ian Malcolm - Jurassic Park
Cultura

AI: Appropriazione Indebita di immagini

Da qualche mese l’avventura delle immagini generate con “intelligenze artificiali” sta tenendo banco tra tutti i miei contatti creativi. Per statistica in questi mesi non ne ho trovato nessuno che ne fosse sinceramente soddisfatto, anzi. Né che riesca a vederne un’applicazione utile per il proprio lavoro, o per altri, al massimo qualcuno – non artista – le sta usando per baloccarsi a tempo perso. O aziende che stanno procedendo per tentativi in modo da disfarsi dei loro artisti. Di fatto quindi dopo qualche mese che questa cosa è fattibile, non è andata troppo oltre il generare più problemi normativi che altro.

Aspettando di comprendere la piega legale che andrà prendendo questa faccenda, ho notato che alcuni temi sono poco battuti. Sono questioni che toccano il diritto, il lavoro e il concetto di arte. Soprattutto su quest’ultimo sembra esserci lo scoglio principale (cos’è l’arte e cosa non lo sia è una considerazione piuttosto soggettiva, in fondo) perché scontiamo decenni in cui le forme artistiche sono state man mano private del ruolo di critica sociale e politica.

Sono state gettate in una dimensione acritica dove è tutto bellissimo, dove si trasecola davanti alla magnificenza, dove spesso si confonde anche un pacchetto di patatine scartato per un’installazione artistica e dove quindi il ruolo più peso che le arti figurative hanno avuto fino al Settecento (magnifica propaganda visiva, per la maggior parte) e poi da metà Ottocento (satira, critica sociale grazie alla stampa libera, e poi alle narrazioni pop) è stato depotenziato e ridotto a semplice uso e consumo fino alla diffusione delle immagini da intelligenza artificiale. Dove cioè chiunque con delle indicazioni a una macchina crede di aver creato un’opera artistica.

I diritti di chi lavora nell’applicazione creativa è il punto centrale della questione, non tanto le presunte innovazioni futuribili. E il fatto che soprattutto in Italia c’è sempre la questione sul tavolo che i mestieri creativi e intellettuali non sono considerati lavori. Da un lato e dall’altro.
Ma andiamo con ordine: questo discorso che farò riguarda espressamente le applicazioni capitalistiche alla generazione di immagini AI, non le applicazioni tecnologiche in altri campi. Perché quel che è focale non sono le ricerche scientifiche, ma la loro sinuosa applicazione per approfittare di normative opache.

Cosa sono le immagini generate da AI?

Alcune società promettono che, con delle descrizioni semplici, un’intelligenza artificiale vi crei un’immagine che corrisponda ai canoni inseriti. Questo grazie a programmi preziosissimi e importantissimi, ricerca “scientifica” che migliorerà il futuro (come, non è ancora chiaro).
Il problema però è semplice quanto enorme, perché c’è un errore di comprensione: le AI in realtà non creano immagini dal niente. Quindi già da qui potremmo anche parlare di pubblicità ingannevole.
E’ un po’ come con google quando cercate qualcosa: vi restituisce migliaia di risultati, ma non sono tutti i risultati. Vi mostra quelli che i suoi calcolatori ritengono più rilevanti, ma non per l’accuratezza del contenuto, ma per i risultati umani. Si tratta quindi di una sorta di pensiero magico attribuito alla tecnologia. Pigi un bottone, scrivi una chiave di ricerca, et voilà, quello che esce è ovviamente il risultato più corretto. Applicato alle immagini generate da AI, l’errore di partenza è credere che siano generate dal nulla. E che tale immagine sia il risultato della riflessione della macchina.
Facciamo un esempio molto semplice. Se chiedo a una AI

Un paesaggio di un’isola tropicale al tramonto nei primi giorni d’estate, dove si vede l’oceano, la vegetazione e le stelle, con un cielo sereno ma con grosse nuvole all’orizzonte.

La AI non sa cosa sia tutto questo. Andrà a pescare dalle immagini che le sono state date i concetti di paesaggio, tramonto, isola tropicale, perché necessita di una metadatazione umana a monte.
Perché? Perché non ha dentro di sé l’esperienza per associare questi elementi e applicarli ogni volta con cognizione di causa. Sa solo che palma è un albero spigoloso, ma non sa perché sia diverso da un abete. Il suo concetto di albero sarà quello che più diffusamente le è stato metadatato, ma da sola non saprebbe scegliere se applicare una quercia o un pino. Il processo di apprendimento di un artista e di una Ai sono diversi. Non solo per il tempo che un artista ci mette a impararli e poi ad applicarli.

La AI vive in un mondo sordo e statico, in un circuito chiuso, al contrario dell’artista. Le persone che si applicano alle discipline artistiche (non solo professionali, anche per semplice hobby) non procedono solo per mera imitazione nella stessa arte. Questo è il grande errore di fondo di chi spaccia queste immagini per “arte”. Il pittore non emula solo un X numero di volte altri quadri a olio prima di farsi chiamare ‘pittore’, ma associa numerose esperienze sensoriali al suo lavoro. Per creare un quadro ci vuole la sua esperienza di vita, non di semplice imitazione dallo stesso media: storie che ha fruito, quadri, statue, musica, aneddoti, tagli di luce, etc.
Al contrario la AI viene esposta solo a immagini su cui fare, chiamiamola, esperienza. Immagini statiche raccolte dal web: quindi è chiaro che si tratta di imitazione, non di creazione. Le AI non sono preposte ad apprendere il significato semantico della raffigurazione e riutilizzarlo quando ritiene necessario, ma di restituire un oggetto visivo dietro richiesta.

Tornando al paesaggio tropicale quindi la AI non sa la differenza tra gli elementi richiesti. Non vi mostrerà una palma specifica delle isole Mauritius. Né ragionerà per mettere in asse le stelle reali che possono vedersi da un’isola tropicale al solstizio d’estate, a meno che qualcuno non le abbia archiviato tale informazione.

Non ha in sé i concetti di paesaggio rispetto a primo piano. O meglio; può applicare un ritratto e un paesaggio, ma non ne sa desumere gli estremi per questa scelta se non dalla richiesta stessa. Non può determinare quale inquadratura sia meglio per quella visione. Può solo basarsi sul fatto che la maggior parte dei paesaggi che ha scandagliato hanno dei punti in comune. Non può conoscere la differenza tra una visione prospettica dall’alto e dal basso perché la Ai non fruisce degli effetti emotivi di quella scelta di regia. Le AI emulano, non fruiscono, perché non hanno esperienze sensoriali. Non ha quindi un bagaglio esperienziale ed emotivo per cui può conoscere gli effetti su di sé di quella scelta artistica e quindi applicarla.

Questo è il problema principale: non si tratta quindi di immagini ex novo, frutto di un esperimento basato su artisti consapevoli di parteciparvi. Perché la Ai non sa la differenza cromatica tra un alba e un tramonto, né applica concetti scientifici laterali, come una specifica varietà di palma in ambiente tropicale.
Si è trattato di un’altra cosa, molto più siile alla pesca con la dinamite.
Una pesca delle immagini del web che ha tirato su ogni file immagine e, approfittando goffamente di normative opache, se n’è appropriata.
L’inghippo sta qui: le AI non lavorano sull’autodisciplina, ma sull’uso indebito. Non creano, ma imitano.

Quando si genera un’immagine AI non si genera un’immagine ex novo. La AI non riflette su ciò che ha imparato per elaborare un’immagine nuova. Per esempio, il processo per creare un paesaggio tropicale inesistente potrebbe essere la Ai che, appreso da un X numero di immagini ha dedotto che ci starebbe proprio bene una barriera corallina; quindi, essendo di fatto un’enorme calcolatrice, impara la struttura del corallo, e la ricostruisce; imparata la gestione prospettica, mette in asse il suo corallo… Potrebbe, ma non funziona così.
Funziona che prende la foto o l’immagine di un corallo e la riplotta. E’ solo una coriandolaiata di pezzi di immagini diverse messe assieme. Infatti la AI non sa che ci sono le firme degli artisti e le riporta. Se le AI avessero imparato da materiale libero, non ci sarebbe stato questo problema. Risultato? Ora stanno cercando di far loro aggirare le firme degli artisti.
L’immagine generata può avere un angolo di un mio disegno, un altro di un Frazetta, di una fotografia, etc. etc. smaterializzate e ricomposte. “Crea una nuvola”, dicono per camuffare il fatto che è tecnicamente un nuovo file immagine. Come dire che quando piove non è acqua, è una cosa diversa, è materia liquida che deriva da uno stato vaporeo attirata dalla gravità.
Si tratta di un frullato, un collage, un puzzle ottenuto da 10 scatole diverse che ha creato, per ora, solo dinamiche di sfruttamento.

Per ottenere queste immagini AI viene offerto un piano anche di prova o a pagamento con uso di database ottenuti dalla spazzolatura del web, come fanno i grandi pescherecci con le reti oceaniche. Cosa ci finisce dentro, non è importante. È importante però l’illusione che genera nel pubblico finale di poter creare potenzialmente qualunque immagine. Tranne per il semplice, piccolo, dettaglio: innanzitutto, che non è davvero una creazione. E poi nessuno ha chiesto agli artisti e ai proprietari delle immagini se erano d’accordo che il loro lavoro venisse impiegato da un’azienda privata o per un esperimento. È come se io trovassi un mio disegno usato da un ente che promette dietro pagamento un servizio senza che io abbia mai avuto nemmeno una mail di avviso.

Chiamare inoltre intelligenza artificiale qualcosa che si limita ad assecondare un comando per me non è intelligenza artificiale, è solo esecuzione senza premere interruttori. Perché queste AI, per ora, non possono dirvi fattelo te. O non sono d’accordo con la tua richiesta, o Non mi piaceva l’abete e ho messo una palma. E non è strano infatti che chi le reputa ‘una tecnologia strabiliante’ non ha nessun rapporto né con l’arte né con le scienze umane.
A questo punto, chi le usa è chiaramente informato del fatto che sta plottando da materiale ottenuto in maniera opaca. Per quel che mi riguarda ha due possibilità: non usarle finché la faccenda non viene risolta, o abbracciare l’idea di essere complice di questo sistema – che può usare qualche mese quindi non è che stiamo parlando di un dispositivo irrinunciabile-. Non c’è niente di male, non è un reato, assicuro, ma preferisco sempre chiamare le cose col nome corretto: in questo caso, mediocri ladruncoli.

L’industria artistica

Numerosi artisti si sono accorti che il loro lavoro era stato usato non solo in maniera impropria, ma anche con sfacciate richiesta di imitazione. I due casi più famosi che mi sono passati davanti.

Il primo è uno che spaccia per proprio il risultato delle descrizioni AI con ancora la firma dell’autore originale che, appunto, la Ai non ha tagliato via. Voleva lanciare così il suo libro di illustrazioni AI e che, beccato in tempo 0 con le mani nella marmellata. Si è poi arrampicato piagnucolando perché lui “è comunque un artista” e vorrebbe solo vendere t-shirt.
L’altro, il più famoso forse, è una persona che chiedeva delucidazioni su come descrivere lo stile di un artista alla AI. L’artista, Tomm Moore, gli ha risposto:

Tomm Moore risponde sull'uso improprio del suo.
Screen dal social di un utente che vuole drenare lo stile di un artista, Tomm Moore, per proppare immagini.

Ho trovato un twit di qualche giorno dopo del sig. Gorm, in cui gnaulava che non ha il tempo di stare dietro a tutto. Stellina. La cosa divertentissima è che lo stile di Moore, per i film animati a cui ha partecipato, è riconoscibilissimo.
Tomm Moore ha uno stile inconfondibile. Quelli come lui sono i big dell’industria artistica e di intrattenimento: sono stati i primi a essere lanciati nei database. Ho visto anche chi ha trovato la propria opera come letteralmente icona di stile di pittura semirealistico AI. Oppure proprio lo stile con il proprio nome. All’estero si stanno moltiplicando le class action e le cause degli artisti contro questi usi. In mano italica me ne sono capitati già alcuni: copertine brutte di libri, fantasie per tessuti, improbabili mostre AI. A questo punto ci tengo a considerare anche pessime applicazioni ridicole: brutte copertine fatte con Canva spacciate per servizio grafico professionale, gente che ricalca opere altrui o sketchup. In confronto alle AI, queste sono truffaldine solo più desuete: ne avevo accennato anche qui.
Tutti contenuti sviluppati per monetare, mentre il ruolo degli artisti è sempre più precario.
Perché sì, insomma, il lavoro è nostro e vorremmo usarlo per viverci. Non è che si può invalidare il lavoro creativo e poi cercare di fotterlo perché piace l’etichetta artista.
Ma il paradosso estremo è questo. In una società in cui tutto viene ridotto a tutto, subito, ora, pronto, gratis, dove poche multinazionali digitali vivono di estrazione di dati, tutto deve essere a misura di mediocrità: nessuna disciplina, nessun tempo di attesa, anzi.

Questa prosopopea di creazione, libertà artistica non serve altro che camuffare l’intento di lucrare dietro a un’applicazione d’intento economico. Dopo i bìtcoin, gli enneffettì, le sedicenti installazioni creative, arriva l’esercito di quelli che dicono a una tecnologia cosa fare, come se chiedessero ad Alexa le informazioni del meteo. Sembra solo un altro boss di fine livello da abbattere, e nemmeno di quelli più svegli.

La questione dei contenuti d’immagine

Eh ma non è veroh le immagini eranoh libereh” è la difesa piagnucolosa che ho visto più diffusa. Peccato che non sia così, e l’ho provato con un enorme paradosso cercando me stessa.

Perché per ora nessuna delle mie immagini è stata buttata nella pastoia Ai, ma ho cercato etruschi.

E ho trovato tantissime foto non solo di reperti museali, ma anche di slide vetuste di professori di varie branche dell’archeologia. E , soprattutto, palesi fotografie da cataloghi e convegni.
Dubito che queste ditte abbiano spedito una mail al professor Brambilla Fumagalli di archeologia nautica punica per chiedergli se possono usare la sue side di un power point del 2009 sui bronzetti funerari a Boffalora.
La loro presenza, e la natura, conferma che queste compagnie hanno setacciato il web e, nell’ accaparrarsi più immagini possibili, hanno pescato a strascico. Reperti museali, cataloghi e atti di convegno sono pesantemente tutelati da varie norme, oltre a essere molto costosi per le università. A volte un po’ vetuste (spedire richiesta via fax…), ma di certo a nessuno di questi enti sarà arrivata una richiesta formale di uso delle loro proprietà intellettuali.

Il problema principale infatti è l’opacità delle normative sull’uso di materiale online. Secondo il sentimento più diffuso infatti una cosa che è su internet sarebbe di dominio pubblico. E quindi, per distorsione e perversione, libero di essere sfruttato economicamente.
Peccato che il web non sia nato per questo. Ma per sì mettere pubbliche informazioni scientifiche: persone esperte di un dato argomento cominciarono a compilare pagine di dati. Volete sapere l’elenco di numeri di una rivista di bricolage belga uscita negli anni Cinquanta? Di certo nel primo web qualcuno l’avrà metadatata, perché il web era nato come un’enorme archivio.

Di conseguenza il paradosso è vedere gente che si spaccia per artista AI che, estratta una pastoia illustrata, si proclama artista e reclama l’immediata proprietà per sfruttamento economico di quella cosa nata proprio da un errore empatico. Sono dozzine gli screen di mail di gente che si improvvisa artista e promette, dietro pagamento, di fornire immagini ad aziende che lavorano con l’immagine (editoria, studi di videogames, sartoria). Richieste di imitazione di stili particolari, ‘mostre d’arte benefiche’ con AI, campagne pubblicitarie dai colori ipersaturi.
In realtà quella che viene acclamata come una cosa rivoluzionaria non è niente di diverso di avere un’immensa fotocopiatrice molto svelta che ti permette di spacciare per tue delle t-shirt col simbolo di Batman e la scritta Iron Man.

È una ricerca scientifica? No, è una rapina!

Emmett Brown (Christopher Lloyd) e Marty McFly (Michael J. Fox) da "Ritorno al futuro III".
Ritorno al Futuro III (1990)

Il trucco sta in questa retorica: si tratterebbe di una rivoluzione scientifica e artistica, democratizzante. Di qualcosa molto molto molto importante che noi artisti stronzi non capiamo.
Concetto curioso, perché viene applicato sempre alle trovate di uso commerciale, e mai alle invenzioni salvavita. Perché per me la tecnologia è quella cosa che salva una vita e tiene al sicuro le persone nello svolgimento delle attività quotidiane. Non una trovata finalizzata a sclerotizzare un sistema di vita precario cercando anche di drenare i dati personali.

E le arti non sono democratiche.
Non lo sono mai state, per il semplice fatto che se vuoi che qualcuno la produca, l’arte, quella persona deve imparare come si fa. Quindi non può essere un individuo produttivo al 100% nella tua società: quindi non va a caccia, né a zappare, né a raccogliere quanto vanno gli altri adulti. In questo caso non si tratta di democratizzazione, perché attualmente l’arte è già abbastanza democratica: chiunque di noi può decidere di cominciare a impararne una con un corso di musica, pittura, ballo. Dettare a una AI è mediocratizzazione.

Ormai siamo nella gig economy, l’economia dei lavoretti, delle chiamate, del tutto subito ora e gratis. Le tecnologie digitali, che prometteva di fare faville futuribili, sono applicate tutti i giorni sistematicamente per precarizzare il lavoro. Per intaccare i diritti di lavoratrici e lavoratori, mantenendo però intatta la struttura formale. Non più per permettere a sempre più persone di avere mezzi per comunicare o di vivere e lavorare al sicuro. Di fronte a sedicente comodità per il consumatore c’è un sistema che permette di pagare sempre meno la manodopera e smaterializzare i costi fissi per le aziende. Qualche esempio?
Negli anni Novanta si ordinava la pizza a domicilio tramite un apparecchio. Negli anni Due e Venti ordinate la pizza a domicilio tramite un apparecchio.
Sempre negli anni Novanta serviva una vettura con autista per raggiungere un appuntamento importante. E negli anni Due e Venti avete una vettura con autista per raggiungere un appuntamento importante.
In entrambi i casi, oltretutto, ora potete decidere il destino del fattorino con delle stelline. Ma non è cambiato niente, usate solo un telefono molto più costoso per ordinare del cibo a casa che vi porta sempre una persona.
Lo stesso avviene con le persone di mansioni in cassa e accoglienza, sostituite man mano da apparecchi di emissione di biglietti. In alcuni casi nei supermercati trovate solo le casse automatiche.

L’iperprecarizzazione del lavoro, soprattutto a Milano, l’ho inserita usando i fattorini a pedali in C’era una volta in Paolo Sarpi. Proprio perché nel mentre sono riusciti a sindacalizzarsi e a ottenere dei diritti che sembrano scontati – ma non è così- e l’artista, come freelance, è sempre più precario.

Si tratta di attacchi frontali a ogni forma di lavoro: manuale, di servizio, d’ufficio. Qualsiasi mansione, dopo che viene precarizzata da contratti sempre meno stabili, viene sostituita da una forma alternativa di tecnologia che non da nessun vantaggio concreto all’utente finale.
L’immagine generata da AI rientra in quest’ottica. Non costa scaricare centinaia di immagini dal web, se non incidentalmente qualcuno che tenterà una causa legale. Nè investire in una tecnologia che le frulli assieme, poi rivolta a un pubblico medio che le può usare per i motivi più disparati. Qualsiasi problema inoltre nella gigeconomy viene usato il sedicente algoritmo come parafulmine: avete problemi sulla piattaforma social, le app, i turni? colpa dell’algoritmo. Anche la ricetta per la torta è un algoritmo. Eppure tutti sappiamo che anche con gli stessi ingredienti il risultato può essere un po’ diverso a causa di fattori esterni. Gli algoritmi sono entità matematiche governate prima dalle persone e poi calcolate ed eseguite dai programmi. Se l’applicazione di un algoritmo genera uno squilibrio sistematico, non è un errore: è voluto da scelta umana.
Il problema è proprio a monte: non c’è stato un momento in cui si è discusso di rispetto della proprietà intellettuale. Come se il web fosse una sorta di mondo alternativo in cui le leggi non hanno valenza.

You patented it, and packaged it and slapped it on a plastic lunch box, and now [bam] you’re selling it! You’re going to sell it!”

{Ian Malcolm, Jurassic Park, 1993}

Le immagini sono state prese e utilizzate, date in pasto. Elaborate quel niente che basta per poter mettere in discussione il diritto stesso di genitorialità dell’opera. Si approfitta quindi di uno scollamento tra il costo non pagato e il ricavato dallo sfruttamento e dalla concorrenza sleale. Nessuno ha pensato che fosse opportuno contattare i diretti interessati per chiedergli se fare parte di un progetto e di negoziare un prezzo congruo per l’utilizzo delle immagini.

 […] But your scientists were so preoccupied with whether or not they could that they didn’t stop to think if they should!

Nessuno, degli adulti attorno ai trent’anni che hanno partecipato alla realizzazione di questa roba ha pensato a dare una corrispondenza economica al lavoro di un’altra persona.

Perché?
Perché tutto deve essere gratis e pronto per chi usa. Per il semplice fatto che ormai tutto il mercato appetibile per queste cose fruisce le immagini attraverso schermi piccoli e retroilluminati. Di conseguenza tutti i sedicenti errori che le AI compiono (dita in più, denti, etc) saltano subito all’occhio di chi ci lavora, ma non al pubblico comune che giustamente non ne è esperto. Addirittura non distinguiamo le inserzioni visive dai post dei nostri amici quando scrolliamo la paginata di un social tramite schermo. Ecco perché poter mettere le mani su questo tesoretto, per una civiltà basata sulla comunicazione visiva come la nostra dove si sta è concretizzato il concetto di postverità, è una faccenda così importante per chi ci vuole lucrare sopra in termini di tempo e resa.

Il mio amico Ultra- Ludd

Tra le varie accuse di mi sono presa anche quella di essere una luddista. Ma ho anche dei difetti.
Questo discorso dell’applicazione della tecnologia E Luddismo è molto interessante dal punto di vista della fantascienza. Questo genere si interroga proprio sul ruolo che la tecnologia ha sulla vita delle persone: opportunità o oppressiva? Dal rapporto che ne scaturisce abbiamo una fantascienza più utopica o distopica che cercherò di riassumere.

Con Star Trek per esempio abbiamo una missione pacifica scientifica verso mondi sconosciuti di un equipaggio inclusivo; con Mad Max abbiamo una civiltà per terra a causa dell’atomica.

Il tema della sostituzione del lavoro con macchine è antico nella fantascienza, ma aveva altre premesse tutt’altro che nefaste, anzi. In molti titoli le macchine hanno sostituito le incombenze lavorative dell’umanità. Mentre le macchine eseguono le mansioni più pericolose e scoccianti, sono liberi tutti di seguire i propri sogni e dedicarsi a svaghi intellettuali.
Capito? La macchina lavorava al posto tuo. Anziché andare in fabbrica potresti stare spaparanzato nel giardino di casa a leggerti una rivista, andare a teatro, viaggiare! E non è un caso che sono tutte narrazioni in cui il ruolo degli scienziati è positivo: persone che vivono in armonia fornendo all’umanità i mezzi intellettivi per vivere ancora meglio grazie alle scienze e alle arti.
Solo in pochi casi, forse di chi ci ha visto un po’ più lungo, è stato intuito che forse questo sarebbe un problema in società a forte spinta economica che ha però anche la necessità anche di tenere l’ordine.

Qui ecco che rientra il signor Ludd, che avevamo lasciato in un trafiletto del libro delle medie: nel mio era descritto come un pazzerello armato di martello che sfasciava i macchinari. La cosa mi ha sempre affascinato, insomma, intuivo ci fosse un motivo per cui questo tizio avesse sfidato una caldaia.
Il motivo l’ho scoperto più tardi: nella rivoluzione industriale inglese, dove serviva manodopera, le condizioni di vita delle persone negli stabilimenti erano pessime. Non solo, le donne che lavoravano fino a quindici ore al giorno per una paga misera che crollavano dalla stanchezza erano anche accusate di non saper badare ai propri figli. Quando i genitori che accettavano queste condizioni era proprio perché non ce n’erano altre. Così i luddisti, un movimento più che una persona, aveva deciso di protestare rompendo ciò che il padrone della fabbrica teneva di più: i macchinari.

Un po’ diverso dalla narrazione poverini non capivano la bellezza della tecnologia.

In realtà l’avevano capita davvero bene: era un periodo in cui i lavoratori ancora possedevano gli attrezzi del lavoro, e la loro privazione (il concetto stesso di andare a lavorare in fabbrica che sostituisce il lavoro a domicilio) era vista come un pericolo dove, appunto, poteva diventare una forma di ricatto e di emarginazione sociale.
Quindi sì, un artista arrabbiato contro la caldaia che gli coriandola il lavoro in questo caso è tecnicamente un luddista. Un post-luddista. Perché non si tratta di prendersela con le scoperte scientifiche, ma con la sua perversione applicata allo sfruttamento economico.

Futuro, arte e scienze

L’ultimo punto su cui mi fermo è il rapporto tra lavoro e tecnologia quando questa viene presentata come “nuova”. Perché purtroppo le ai generano immagini con dei nuovi protocolli non è esattamente vero. Perché se lo fosse io sarei già lì a fare i miei centinaia di personaggi e paesaggi. L’inghippo è infatti presentare quest’idea come nuova, qualcosa di strabiliante e di cui ci sarebbe necessità. Ora, per me la necessità è che la tecnologia venga applicata in modo da avere dispositivi di sicurezza salvavita.
Ma in questo caso si tratta sempre di questioni legate al controllo e allo sfruttamento economico di qualcosa grazie a normative opache. Ma è davvero nuovo un programma che mischi delle immagini per generarne un’altra? No.

Negli anni scorsi ho imparato a usare software speciale: Agisoft metashape.

È un software molto interessante, che ha un solo difetto: è usato in archeologia. Quindi si tratta di un programma davvero di nicchia, il cui uso è attualmente limitato a professionalità che hanno interesse ad avere una fotografia di un rilievo: archeologia, geologia, etc. Oh, ma guarda, della scienza.

Come funziona?
È molto semplice: si fanno centinaia di foto in alta definizione di uno scavo. Poi le immagini vengono lanciate dentro al programma con delle specifiche richieste. Questo ci pensa su e le raffina. Alla fine, il risultato è perfettibile: si scolpisce la grafica finale, si inseriscono i dati per la geolocalizzazione, si mette in asse… e lo si può animare. Alla fine si ha uno scavo in 3D, in scala 1:1.

Suona familiare, vero?

Un software che mastica delle foto che gli dai tu per restituirti qualcosa di nuovo ma che nuovo non è.
Probabilmente quando al telegiornale avete visto delle immagini di scoperte archeologiche avrete visto una cosa in 3D muoversi e avrete percepito non essere reale: probabilmente era un risultato molto ben fatto con metashape, che può essere usato sia per gli scavi che i reperti singoli.
È molto utile per la comunicazione, soprattutto di siti impervi come quelli subacquei: immaginate di voler visitare o dover studiare un sito subacqueo che non potreste avvicinare altrimenti. O che dovete inviare le informazioni all’università con cui collaborate.
Parliamo di un programma effettivamente di nicchia, ma che guarda caso esiste dal 2010.
Ecco la differenza sostanziale tra un programma di gestione dati e immagini utile per una professione, contro l’applicazione di sfruttamento economico su lavori esterni.

Io credo molto nelle scienze e nelle loro applicazioni per migliorare le condizioni quotidiane delle persone: credo che le scienze dure e tecnologiche, con le scienze umane e le discipline artistiche, possano migliorare notevolmente la vita delle persone, sia come sicurezza e qualità, dalla settimana breve al dispositivo di sicurezza acceso che tiene al sicuro chi lavora a un filatoio. Ma se una tecnologia non solo è inutile, ma concorre a sfruttare delle persone per arricchire sfacciatamente pochi sfruttando dumping sociali e normative opache la evito quanto posso.

In questo momento generare immagini tramite AI non gli ho trovato nessuna applicazione sensata, se non quella di fornire a costo praticamente zero materiale sotto controversia legale per sfruttamento. Inoltre, ci vedo solo problemi di tutela legale delle immagini. E non sto parlando solo dei miei disegnetti che domani potrei trovare in una AI, ma di fotografie personali che vengono spazzate dagli account social, per esempio. Perché non si tratta solo di un mio disegno, ma domani potreste riconoscere vostro nipote nel fintobimbo di uno spot dei biscotti.

Per tanto, finché le controversie legali non saranno quietate e non sarà offerto una contrattualistica congrua ai lavoratori creativi (qui ho parlato delle immagini AI, ma credo si possa parlare anche di chi lavora con la musica, il suono e la scrittura perché vedo gente strabiliata che la chat responsiva gli risponda in realtà pescando da testi online), non la ritengo né una rivoluzione, né una nuova frontiera dell’arte, né un beneficio caduto dal cielo. Ma solo l’ennesimo, fastidioso, tentativo di precarizzare lavori già precari.

Concludo questo lungo post con una considerazione.

In realtà c’è un’applicazione delle immagini AI che, una volta regolamentate, condividerei: le scienze che vivono di ricerca su materie che non potranno mai assistere, come l’astronomia e la paleontologia. Nessuno di noi, per ora, può conoscere un paesaggio del triassico o la superficie di un esopianeta, e la computazione di informazioni precise unite a una rappresentazione visiva da usare come base per le successive lavorazioni artistiche credo che sarebbe interessante.
Torno sull’esempio che ho fatto all’inizio dell’articolo, che non era casuale: paesaggio tropicale al tramonto.
Pensando a un esopianeta di cui conosciamo alcuni dati essenziali, si potrebbero desumere per creare una rappresentazione della sua superficie coi colori e le forme più precise. E così per una rappresentazione di un tramonto di 120 milioni di anni fa: inserendo i dati inerenti alle stelle, ai colori dell’atmosfera e al tipo di vegetazione, si potrebbero creare dei modelli teorici visivi precisi derivati dai dati. Come sarebbero le nuvole, per esempio, di un pianeta la cui atmosfera è densa e calda e molto vicino al suo sole? Non sarebbe molto diverso dall’avere una macchina da planetario che calcola la posizione degli astri secoli prima, fornendo modelli visivi che poi sarebbero utili per l’interpretazione de paleoartist concept artist al lavoro per i laboratori.
Ma, al momento, per tutto ciò, non serve una macchina: servono solo una dozzina di scienziati, ognuno con la loro esperienza, e gli artisti con cui fare brainstorming.

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