Cultura

Essere autorə indipendenti 3- I libri

Terzo appuntamento: i libri

Eccoci arrivati all’ultimo atto di questi tre articoli. Dopo la vita pubblica del libro ed essere autori self arriva finalmente l’oggetto dei nostri desideri: il libro.
In questo articolo infatti parleremo di libri. Nel loro essere oggetto, della loro storia, e del loro ruolo nel selfpublishing. Cercherò di essere breve nella sua parte storica, anche se vi prometto situazioni molto interessanti.
Nel primo episodio abbiamo parlato dell’importanza che un libro self possa essere esibito nella vita pubblica, e quindi l’importanza dello spazio in fiere e saloni.
Nel secondo episodio abbiamo parlato di cosa voglia dire essere autorə self in varie sfumature. Adesso parliamo del contenitore, delle nostre storie, il vero protagonista: il libro.

1- “Ho scritto un libr-” “No, non lo hai fatto”.

Oggetto di voluttà intellettuale per eccellenza, il libro è al centro di ogni bagarre culturale da che ho memoria.
Il tutto ruota attorno alla sua essenza di oggetto di voluttuario e su un fattore molto sottile, che io chiamo Il reato di lesa maestà.

Da che ho ricordi ho assistito a vere e proprie risse tra intellettuali e pseudotali e chiunque capitava loro a tiro. Ora con un romanzo fantasy che aveva (gasp!) l’ardire di farsi chiamare letteratura, ora con un fumetto che (sigh!) in inglese li chiamano graphic novel, cioè romanzo. E adesso (urgh!) gli influencer!

Non c’è oggetto culturale più conteso.
Hai scritto un libro? C’è una fila infinita di personalità subito disposte a dirti che no, tu non hai scritto un libro vero. Spesso perché considerano libri veri i propri e i tomoni dal contenuto complicato per chi non è esperto di quella specifica materia. Quasi come se l’aver scritto un mattone polacco minimalista di scrittore morto suicida giovanissimo, copie vendute due, e cioè un oggetto inavvicinabile ai più, sia un vanto.
Ma non credete, anche nei microhabitat editoriali funziona così. C’è sempre qualcuno che ha scritto un fantasy più fantasy del tuo. Che ha disegnato un fumetto più graphic novel del tuo, un seller più best del tuo e via discorrendo. Nel fumetto qualcuno se n’è uscito con ho realizzato un racconto per sequenze esperienziali dove i personaggi comunicano tra loro tramite l’uso di dialoghi in sospensione circoscritti entro nuvolette.

E tutto questo genera infinite bagarre intellettuali e scazzottate a colpi di vocaboli pindarici, termini desueti, concetti apotropaici. E quando volano stracci io mi precipito perché adoro tutto questo. Io non son un’intellettuale, sono una persona barbara che vive ai margini della società culturale dove prosperano gli elementi più diseducativi. Quindi quando parte la rissa intellettuale mi precipito, perché le amo!
Soprattutto perché il mio è un interesse di tipo puramente scientifico: tutte queste bagarre vengono lanciate per aria, e in qualche modo dovranno tornare giù. Perché ridendo e scherzando tutte queste questioni sono quelle che ridefiniscono di volta in volta il concetto di libro. È come se ci fosse un confine mobile, ridiscusso e tirato di qua e di là.

Quindi, cos’è il libro?

L’involucro esterno o il suo contenuto? Intendiamo il suo essere soprattutto un insieme di fogli di carta fascicolati e rilegati dal valore approssimativo di € 85 al Kg? O è il contenuto in sé che intendiamo quando banalmente diciamo ho letto un libro?
Definire cos’è un libro, questo continuo nomadismo semantico di oggetto e contenuto a seconda di chi sta parlando di quale titolo, è molto importante. Ed è una questione che dovrebbe interessarvi soprattutto se vi muovete in generi narrativi sottovalutati come tutte le famiglie di fantastico, dell’erotico e/o fate fumetti.

2- Civette di carta

Quante volte vi è capitato di entrare in un posto che smercia libri e notare le copertine di testi universalmente conosciuti come ‘i libri bruttini’? Quelli che non riuscite proprio a capire come faccia la gente a spendere 20 euro per portarseli via.
Nei mercatini dell’usato è un vero viaggio nel tempo. DI questi libri ne troverete a pacchi. Tutte le biografie di vecchie glorie: calciatori, soubrette, opinionisti, comici. Niente grida “fallimento” più del vecchio libro di quel cialtrone di opinionista che infestava i talk, ovviamente ghostato, che millanta tesi invecchiate malissimo. Ma lo scopo di quel libro era di mostrare il suo faccione in copertina, un testo pieno di sé la cui tesi durava giusto il tour promozionale. E poi via con un altro testo vanità over9000!

Gli ultimi arrivati sono i libri delle influencer, che seguono per ragioni anagrafiche gli youtubers (in maggioranza le prime femmine, i secondi maschi). Che non sono niente di diverso di quando sono usciti i libri dei comici di Zelig che riciclavano le vecchie battute. E degli opinionisti, delle presentatrici e le loro diete, imprenditori presso sé stesso. E poi le biografiche epiche di sportivi, di nobili, di vippume semisconosciuto, pseudofilosofi. Fino ai politici che li usano come scusa per vivere in campagna elettorale permanente.
E il patriarca di tutto ciò: Bruno Vespa.

È bastato che una ragazzina ricca prestasse la sua faccia per un libro da influencer che subito sembrava un reato di lesa maestà. Come ha osato questa dire che ha scritto un libro?
Come hanno fatto tutti gli altri prima di lei.
Nello specifico nel caso dei libri influencer la mira è sempre fare marketing sull’indignatone da tastiera che veicola subito post a tema. Perché si sa che se hai meno di 30 anni e sai distinguere uno smartphone da una cabina sip automaticamente sei una creatura pelandronica che merita di essere sberleffata con tutto il sistema social da altri, sempre tramite social.
La mira è anche invalidare costantemente chi vive grazie alle piattaforme social. Nel marasma di cazzate comunque si distinguono numerosi i profili di giovanissimə attivistə seriə e competentə su vari temi. Perché?

Perché i social non sono un nostro circuito economico e non possono essere davvero controllati in tempo reale. Quindi tanto vale mettere a cartello quelli più redditizi per il sistema. Sia per gli indignatoni che li condividono piangendo, sia perché non portano mai davvero un’istanza reale su carta.
Davvero credete che frotte di ragazzinə spendano i loro preziosi 20 euro per un libro simile?

Oh, you, my sweet summer child, no! Il target sono parentame e amiche di mamma che non sanno che regalare, e il più delle volte sono anche regali graditi. Sono titoli civetta che servono a far cassa velocemente. Il tempo giusto di non presentarti a mani vuote da qualcunə che potrebbe prendere quel libro e darlo via. Passerà di mano in mano finché al mercato mio padre comprò.
Che danno fanno questi libri? Nessuno, occupano solo spazio e purtroppo è tutta carta che andrà al macero. O nessun danno che già non è stato perpetrato. Non veniamo da una generazione cresciuta a pane, marmellata e solo lettura classica in latino, scontiamo 50 anni di cazzate a media unificati.
Ma che mostrano un dato interessante. Che c’è sempre chi si lamenta che si pubblicano troppi libri, e quindi servirebbe più controllo sulla qualità dei testi (ovviamente, è sempre chi ne ha già firmati molti). Questo dettaglio è importantissimo e dopo scoprirete perché.

3- “Ho scritto dei libri fantasy!” “Urgh!”

In Italia la letteratura fantastica (da me inteso come fantasy, horror, scifi e tutti i loro eredi) non è percepita come “vera” letteratura. Nei decenni uno stuolo di intellettuali si è prodigato perché venisse allontanata, ghettizzata, e la sua produzione nazionale ostacolata. E quando non è più stato possibile, viene controllata.
Adesso la letteratura fantastica sembra ammessa, ma a un patto. Che contenga elementi molto leggeri e che sia sempre il solito polpettone di non-fiction verista all’italiana. O che contenga elementi di appetibile cultura “alta”, perché la parte fantastica deve essere necessariamente nobilitata e considerata inoffensiva e astratta per sperare di assurgere al ruolo di vero libro. Non è un caso infatti se le traduzioni di distopia o di fantascienza femminista sono disponibili da pochi anni.
La portata del fantastico internazionale nato come elementi di critica (sociale, economica, ecologica, religiosa e antimilitarista), e che si caratterizza anche per essere elementi di semplice diletto e non di prostrazione e sofferenza intellettuale, viene sterilizzata e disinnescata in una specie di delirio intellettuale. Dove architettare concetti sempre più complicati sembra l’unica caratteristica per aver detto di aver scritto un buon libro.
In Italia scontiamo un secolo di esilio dei generi narrativi fantastici. L’opinione intellettuale si è subito prodigata perché venissero totalmente respinti ed esiliati dal parco letture che un adulto per bene dovesse tenere. Fantasy, horror e fantascienza sono stati subito invalidati, esiliati alla sfera infantile e pedagogica, additati come il Male che tenta i cuori perbene. Specialmente l’horror e il fumetto a momenti alterni hanno vissuto situazioni in cui erano accusati di irretire le menti delle persone. I fumetti venivano sequestrati quando bucavano la morale.

Fantascienza dal Regno d’Italia

Ma a fine Ottocento la situazione era un’altra, dalle parti del ridente Regno. Avevamo tante opere e operette, dove per emulare quelle germaniche si faceva largo uso di elementi fantastici. Spettri, spiriti, donne fatali, erano molto presenti nella nostra cultura teatrale. Ma quando, con l’unità d’Italia, gli intellettuali potevano concentrarsi anche su altro, l’unico che ci ha creduto tantissimo nel fantastico fu Emilio Salgari.
Più che fantastico in realtà nel suo caso era avventura, e aveva creato alcune riviste sotto falso nome per pubblicare le meraviglie della scienza. Non era l’unico: avevamo Yambo, e molti altri autori che cercarono, a cavallo dell’Ottocento e Novecento, di scrivere fantascienza. Un po’ ingenua, forse, ma molto sicura di sé e ottimista.
Questo ha portato purtroppo a due situazioni assurde:

  • la prima è che abbiamo dimenticato gli autori precedenti al secondo Dopoguerra, nominati oggi solo quando si parla di protofantascienza. Questo ha portato a credere, e a consolidarsi, che il fantastico in Italia non esisteva. Finché la collana Urania non è partita, con testi esteri e la potenza di fuoco di Mondadori. Se si leggevano giornaletti di fantascienza si era considerati dei bambinoni, scapestrati, niente a che fare con le vere, solide, sofferenti e adulte letture.
  • La seconda è che temporale. Separando così nettamente i generi dal paese, e intanto lavorando così alacremente per invalidarli e screditarli quando non si riusciva a tenerli a bada, alla fine l’Italia ci ha messo un secolo anche solo a tentare di ricrearsi un pubblico proprio, con autorə in vita e non solo da importare. Autorə che producono fantastico su ispirazione di modelli a loro cari, spesso stranieri, ma in grado di radicarne le vicende qui.

Per questo si trovano ancora molti libri con palesi pseudonimi, per esempio. Perché a detta di Fruttero e Lucentini, storici curatori di Urania che sostituirono Monicelli, gli autori dal nome chiaramente italiano non vendevano. Cosa che purtroppo era reale: nei dati di Urania si notavano delle flessioni di vendite in coincidenza dei nomi in copertina dal suono italico.

Ecco perché è importante quando si parla di cosa sia un libro vero occupare lo spazio con le letterature fantastiche. È una questione di affrancamento dal pregiudizio, nato nei rigidi controlli morali.
Non si tratta di questioni astratte. Non sono da reclamare contenuti di alto livello, con metafore, allegorie, locuzioni in latino. È importante il concetto: se il peggior non-fiction criptobiografico in prima persona di verismo è considerato libro, lo è anche il peggior titolo fantasy. Non bisogna cadere nella trappola per cui il fantasy solo se di qualità ha qualche chance di essere un libro “vero”.
Per questo è importante sempre tenere la guardia alta quando si menziona l’identità del libro. Ci siamo anche noi che facciamo fumetti, che scriviamo storie gotiche, fantasy con principesse e draghi, compagnie di ventura, baccanti e satiri, orrori indicibili e astronavi.
Anche i nostri sono libri. Non bisogna cadere nella trappola per cui adesso che ci sono tanti libri più bruttini di starlettine di credersi al sicuro. Scontiamo un secolo di ritardo, di ostacoli, di pregiudizi, di sabotaggi anche, e ci vuole un secondo perché ci si ritorni.

Questo perché la letteratura fantastica e il fumetto hanno un tratto in comune che li rende difficili da maneggiare: sono indomabili. Sono generi e media che nascono per forti critiche sociali, per parlare di sesso (!), per pubblici adulti e affollati. Sono generi difficili perché la sospensione dell’incredulità non è per tutti. E perché hanno il coraggio di essere dei brutti libri, ma il punto è questo: sono libri, nonostante tutti gli ostacoli.

4- Lavoriamo nell’editoria di precisione, tecnologie avanzate al servizio di progettazioni particolari e specifiche…

Nell’articolo precedente avevo accennato alla definizione di libro, grazie alla Treccani.

Complesso di fogli della stessa misura, stampati o manoscritti, e cuciti insieme così da formare un volume, fornito di copertina o rilegato.

E poi:

Locuzioni varie, relative alla stesura, stampa, pubblicazione, vendita.

E fin qui è era chiaro, parlavamo del libro nella sua sfera materiale. Ma c’erano altri significati molto croccanti e gustosi:

Il l. è considerato il principale strumento di diffusione scritta dell’informazione. Si caratterizza per essere prodotto in un numero di copie sufficientemente alto da garantirne la circolazione su un supporto inizialmente destinato a non deperire. Nel l. sono insiti i caratteri di durata spazio-temporale e di mezzo di trasmissione e distribuzione del sapere. Perciò rientrano nella storia del l., inteso come mezzo di comunicazione della cultura scritta a prescindere da quale sia il suo supporto fisico, le foglie di corteccia, le tavolette d’argilla o cerate, i papiri, i codici medievali, passando per il l. vero e proprio, fino ai prodotti dell’editoria elettronica.

Da notare quindi questa cosa importantissima e interessantissima. Il libro è tale perché è inteso come mezzo di comunicazione della cultura scritta a prescindere da quale sia il suo supporto fisico […] fino ai prodotti dell’editoria elettronica.

Permettete che con “scritta” io allarghi il discorso anche ad altri concetti. Scritto non intende solo ciò che farebbe uno scrittore, narrativo o tecnico che sia, ma anche la sceneggiatura di prodotti sfogliabili diversi. Pensate non solo al fumetto, che ‘sotto’ al disegno ha una sceneggiatura, ma soprattutto ai libri per la lettura facilitata con testo e immagini. Qui Scritto potremmo intenderlo come sinonimo di composto.
Questo aggiornamento e il ruolo dell’editoria elettronica è molto importante perché il web ha una velocità di diffusione altissima e una vasta capacità di archiviazione.
Pensate a tutte le potenzialità che hanno i libri elettronici. Si può ingrandire il font, non sgualciamo il supporto, la possibilità dai libri in lingua originale di avere il dizionario da richiamare. Tutte cose che io non uso perché sono una maledetta monaca amanuense della Northumbria e quindi ho le mie pile cartacee, tutte sgualcite, piegate, pasticciate e che se non ho sott’occhio mi dimentico che esistono.

Sean Connery nei panni di Guglielmo da Baskerville ne Il nome della Rosa  (1986) intento a salvare più libri possibili.
Sean Connery nei panni di Guglielmo da Baskerville ne Il nome della Rosa (1986) intento a salvare più libri possibili. Guglielmo noi ti capiamo.

Libri bit

Come vedete, anche qui non c’è nessunissima tipologia di diversificazione tra libri veri e libri meno veri, sebbene ci sia sempre una critica alla minor manutenzione di un testo perché la struttura dell’ebook, grazie agli store online, permette a chiunque di caricare il proprio senza una mediazione di fino di una casa editrice.
Sebbene io sia sempre a favore di selfpublishing avvicinabili da tutti, ci sono certe situazioni che hanno approfittato della velocità di circolazione delle idee offerte alle utenze proprie del selfpublishing e dei social: la veicolazione di manifesti complottisti a finalità terroristiche e alla reticenza delle piattaforme di affrontare le loro responsabilità nel non arginarle. Non è altro che in scala più grande dello stesso problema che già sussiste con la carta stampata.

Tuttavia la velocità di trasmissione nel sapere è una condizione importantissima: basti pensare a Galileo che invia decine di lettere con le sue scoperte ad altri scienziati.

In questa definizione quindi il libro non è considerato reale o meno a seconda del contenuto, né del supporto fisico che lo contiene. Il libro è identificato come un veicolo di sapere, qualcosa che permette la diffusione di un’idea, che ne considera la gittata tramite un numero congruo di copie, qualcosa che contiene sapere da diffondere.
È interessante infatti anche la parte dedicata alla materia: tavolette d’argilla, corteccia, carta. Questa è l’ultima parte, e direi molto interessante è: quando il libro è diventato “il libro” che conosciamo?

5- Storia di libri

Ci sono dozzine di tomi sulla storia del libro, per cui vi dico già che sarebbe assolutamente impossibile, e molto pretenzioso, pensare di riassumere la vita di un medium in un pezzo di post online. Mii concentrerò solo su una parte che reputo molto importante: il rapporto tra le due strutture (fisica e di contenuto) e la società, e soprattutto nel continente europeo e bacino mediterraneo.
È una cosa che mi ha sempre interessato e che ho usato molto per la definizione dei miei maghi: il loro rapporto con la cultura da archiviare e da condividere, possedere dozzine di libri, ricerche di manoscritti sono tutte cose che ho raffinato proprio grazie ai miei studi sulle “civiltà del libro”.

I libri “ieri”

Con libro oggi intendiamo generalmente un testo sfogliabile, rilegato, di qualsiasi genere e tipo.
Per l’antichità è un po’ diverso: noi oggi possiamo stampare libri di diversi formati e numero di pagine, ma nell’antichità il materiale era molto prezioso, i tempi di produzione lunghi e si dava per scontato il ruolo della trasmissione orale. Le arti erano mutevoli, non esisteva la fissità dei testi teatrali o delle canzoni; si mettevano per iscritto solo le cose che dovevano essere note, come banalmente i contratti e tutto ciò che doveva essere canone. Ecco quindi che servivano delle specifiche unità di misura: codice, tavoletta, rotolo, folio, e via così a seconda della situazione della civiltà e della sua materia prima di referenza.

Abbiamo quindi i fogli di papiri in Egitto, in Grecia e in Sicilia fino al circa il IV secolo d.C. Le pergamene soprattutto in nord Europa dal V d.C. (in sud Italia esistevano comunque scuole scriptorie meravigliose), le tavolette d’argilla in cuneiforme nel Vicino Oriente (per esempio l’archivio di Ebla, in Siria, dei tempi di Sargon il Conquistatore). E non dimentichiamo la carta in Oriente; noi in Italia usavamo gli stracci.

Per noi oggi “libro” indica anche la partizione dei papiri più antichi. Per intenderci, una convenzione che indica ciò che resta dei testi e che coi secoli va a codificarsi perché chiunque li studi, in qualsiasi parte del mondo e del tempo, lo possa fare con un’unità convenzionale. Non si redigeva un testo casualmente, ma c’era una questione di spazi, righe, misure da rispettare, misure che saltano dal papiro ai codici fino a trovarsi nella pagina a stampa e nei nostri fogli di word: “interlinea” altro non è che un aspetto della scrittura che è transitato su ogni formato da 30 secoli a oggi.

I Libri oggi

La cosa bella dei libri di “oggi” è che letteralmente chiunque di noi voglia scrivere un libro, firmarlo e mandarlo in stampa lo può fare. Come abbiamo visto nei post precedenti, a parte due o tre accorgimenti legali che possono comunque essere affrontate in un processo, l’ostacolo maggiore è pecuniario.
Sul nostro libro possiamo firmarci col nostro nome o con uno pseudonimo, tipo Joe Falchetto. Ma non è sempre però stato così.
Diciamo che grossomodo il libro come lo conosciamo oggi è nato circa cinquecento anni fa, ma in fondo cos’è un libro se non quello che abbiamo visto cioè: un testo, diffuso in numerose copie, su un supporto durevole e coperto dal diritto d’autore, che veicola sapere?
Già qui abbiamo la prima modernità: il diritto d’autore. Non sempre è esistito. Anzi, molto spesso le opere erano un po’ di tutti, non era poi così importante sapere chi li aveva scritte, finché nel Rinascimento non è diventata una questione per poter ricostruire la vita dei manoscritti e a Michelangelo ventiduenne non è salita la rabbia pare quando non gli hanno attribuito la sua Pietà.
E poi, come abbiamo visto nei post precedenti, c’erano molti testi la cui circolazione era un pericolo per gli autori e i tipografi/editori.
E la diffusione!

Ricordate, più su, il “ci sono troppi libri oggi!”? Quando si è diffusa la stampa a caratteri mobili le proteste sulla “quantità” di libri disponibili erano già in sella: chi potrà mai leggere ben 100 titoli?
Non solo qualità, ma anche l’accesso alla pubblicazione: ora con la stampa chiunque potrà farsi stampare, argh! E potrà essere stampato di tutto, come la Bibbia!
Problema che non era certo nuovo, ma lo sappiamo che al Rinascimento piace essere Classico: nella tarda età repubblicana a Roma, dopo la conquista della Grecia, prese piede la moda di possedere testi, sempre di più, sempre più numerosi, rari e costosi. Ai ricchi romani piaceva da matti avere una villa dove aprivano il loro armadietto ricolmo di papiri (i libri) e metterli a disposizione degli studiosi. E via così, a ritroso nel tempo. Tutte le volte che qualcuno doveva destreggiarsi nella gestione di supporti doveva architettare un modo per… archiviarli.

Le biblioteche antiche

Dagli esempi che ho fatto è importante notare un fattore: in alcuni casi si tratta di archivio, come Ebla, e in altri di biblioteche, come l’Alessandria Tolemaica. La differenza non è insita nel fatto che una è argilla e l’altra è papiro. È una differenza sostanzialmente moderna, perché entrambe le situazioni vedevano i testi archiviati in locali molto dignitosi con sistemi che permetteva a chi li gestiva di trovare il testo giusto in poco tempo. La differenza tra i due è che in quella di Ebla si trovavano testi di gestione documentaria corrente, mentre la biblioteca di Alessandria voleva conservare tutto il sapere scientifico e letterario del mondo conosciuto.
La differenza quindi è solo che incidentalmente a Ebla si è preservato, durante il collasso dell’edificio, anche la parte di documenti che erano destinati a essere cancellati: economia, esercizi, “fatture”, esattamente come facciamo ancora oggi. Documenti che appena smettono di esserci utili li cestiniamo. Ad Alessandria invece si facevano inviare i testi per conservarli, arrivando a litigare con Atene. Si tratta quindi di iniziative di gestione della mole di dati a disposizione di una squadra di intellettuali che doveva: tenere in ordine i conti, contare i beni in entrata e uscita, tenere il computo del tempo per indicare semina, la raccolta, le maree, le rotte, le stelle e le iniziative religiose, formare i nuovi scribi, mantenere i testi religiosi in ordine e quindi i componimenti e gli inni. E poi fare ricerca attiva. Alessandria manteneva gli scienziati, così da trattenere le loro ricerche fresche.

Rachel Weisz come Ipazia in Agorà (2009), nella biblioteca di Alessandria mentre salva altri libri.
Rachel Weisz come Ipazia in Agorà (2009), nella biblioteca di Alessandria.

Le biblioteche private erano invece per vanto (a Roma) e ovviamente ordinate per gusti personali.
In entrambi i casi si genera immediatamente una necessità: che l’archi-biblioteca sia pubblica o privata, serve un modo per capire che diavolo c’è su questo scaffale?
Quando il testo entra ed esce? Chi lo ha preso? Chi lo ha portato?
Cioè un metodo per tener traccia della vita d’insieme dei testi: i cataloghi, la salvezza di ogni sistema.

Il mio antico nemico

E qui siamo arrivati al punto cruciale: chi è il più pericoloso degli avversari, il nemico giurato in Terra per un libro?
Il selfpublishing? Un editore pigro? Un pubblico tosto? Una brutta copertina? Gli influencer?
A parte, ovviamente, il fuoco.
Niente di tutto ciò. È una cosa che in questi tre post è apparsa leggiadra, un colpevole che minaccia l’Editore, il Pubblico, l’Autore, il Libro, e cioè: il catalogo.
Ma come, non abbiamo detto che i cataloghi sono la salvezza?
Certo. Ma il catalogo ha una duplice natura. È un elenco descrittivo… come lo è l’Indice dei libri proibiti.

Catalogare una biblioteca, o un archivio, abbiamo detto, vuol dire tener traccia di ogni singolo titolo e documento. E per questo vuol dire che ogni elemento deve avere le sue informazioni di corredo: titolo, autore, anno. E poi i metadati: dove si trova nel locale? Chi lo ha portato? Ma soprattutto: chi può leggere o possedere questo libro?

Oggi il catalogo è uno strumento importantissimo per un editore perché è la fotografia in costante aggiornamento dell’elenco ragionato delle sue opere. Tutto ciò che un editore pubblica, o un autore, in ordine (anche se molto spesso le case editrici dimenticano alcuni titoli o peggio, gli va a fuoco il magazzino) è presente nel catalogo.
Basti pensare al ruolo che ha ne Il nome della Rosa il come nella biblioteca sono rintracciabili i libri, un sistema arzigogolato chiaro solo al bibliotecario e al suo aiutante. La leggibilità di un elenco è legata a un fattore importante: la possibilità che si ha di accedere a quel dato libro. Se un sistema è troppo difficile la sua mira non è fornire i testi, ma tenerli chiusi.

Il mio maestro iniziò a discorrere con Malachia lodando la bellezza e l’operosità dello scriptorium chiedendogli notizie sull’andamento del lavoro che ivi si compiva perché, disse con molta accortezza, aveva udito parlare ovunque di quella biblioteca e avrebbe voluto esaminare molti dei libri.
Malachia gli spiegò quello che già l’Abate aveva detto, che il monaco chiedeva al bibliotecario l’opera da consultare e questi sarebbe andato a reperirla nella biblioteca superiore, se la richiesta fosse stata giusta e pia. Guglielmo domandò come poteva conoscere il nome dei libri custoditi negli armaria soprastanti, e Malachia gli mostrò, fissato da una catenella d’oro al suo tavolo, un voluminoso codice coperto di elenchi fittissimi. […]
Con quegli oggetti sugli occhi (un paio d’occhiali), Guglielmo si chinò sugli elenci stilati nel codice. Guardai anch’io, e scoprimmo titoli di liri mai uditi, e altri celeberrimi, che la biblioteca possedeva. […]
Malachia mi guardò severamente: “forse non sapete, o avete dimenticato, che l’accesso alla biblioteca è consentito solo al bibliotecario. E dunque è giusto e sufficiente che solo il bibliotecario sappia decifrare queste cose.

Il nome della rosa, Umberto Eco, 1980, edito da Bompiani.

Diventa quindi cruciale il fatto che con l’avvento del cattolicesimo, che si interseca nei sistemi di potere dell’impero romano morente d’Occidente, si instaurano anche dinamiche di controllo sui testi, sulla loro archiviazione e sui locali di conservazione, separati da quelli di consultazione. Tutto ciò che non era considerato conforme agli intenti della chiesa di culto niceano poi romano e cattolico veniva bollato come eretico: i testi, il loro possesso e la loro fruizione dovevano essere sotto controllo. Ecco che l’indice non serve più solo a mantenere un ordine di gestione interno: immaginate i bauli e gli armadia dei templi coi testi sacri, o le collezioni personali. I testi ereditati che compongono biblioteche private e poi col tempo vengono spezzate e vendute e separate.
Controlla i testi, controlla i pensieri.
Ora, considerate che per un ricco romano esibire il proprio patrimonio negli armadi di papiri e testi era fonte di vanto, così come bullarsi pubblicamente che il letterato Pico de Paperis era stato nella sua villa a documentarsi per le sue ricerche. Sebbene nelle mani unticce di senatori, riccastri e commercianti, questi testi circolavano e venivano acquistati, prestati e diffusi. Ci si vantava di avere una collezione di una dozzina, forse due, addirittura tre di titoli: se uno di questi signori entrasse magicamente in un qualsiasi salotto nostro schiumerebbe per il numero di titoli in nostro possesso. Al contrario, schiumeremmo anche noi, perché seppur limitati nei loro armadietti troveremmo titoli perduti da tempo, come si intuisce ne Il nome della Rosa. Per questo è assolutamente importante ogni letterina che viene ritrovata in posti come Pompei.

Quindi il proprietario (o il custode per lui) della biblioteca che architetta il metodo e decide chi e come per l’accesso dei libri diventa via via un sistema: anche in Chiantishire uno dei temi è Ariadne che impedisce a Valtha di entrare nella sua biblioteca privata, dove conserva gli incantesimi stigiani che scambia sovente con Seth.

Chiantishire, capitolo 3. Ariadne, moglie di Dioniso, e la sua piccola biblioteca di testi magici.
Chiantishire, capitolo 3. Ariadne, la moglie di Dioniso.

Il tema di possedere troppi libri è quindi ciclico, si ripresenta a ogni nuovo level-up materiale dell’oggetto libro e il suo rapporto con la possibilità che la persona qualunque di accedere alla diffusione di un proprio testo.

Libri: un mestiere sporco, ma qualcuno dovrà pur farlo

Nel tardo antico invece, quando la cultura cristiana si affianca e poi si innesta su quella classica, c’è una doppia rivoluzione dell’oggetto libro: la prima è che si smette progressivamente di usare i rotoli di papiro e si comincia ad adottare la forma di libro, ossia pagine pinzate da un lato e racchiuse in due lamine più robuste. La seconda è la forma più costosa che cominciano a prendere i codex, i codici scritti a mano su pergamena, con un rapporto tra le calligrafie, il contenuto (una calligrafia per il sacro, una per il profano), i materiali (pergamena, oro, argento, porpora). Tutto ciò che era più duraturo e splendido, e quindi costoso, era riservato per il sacro.

Athelstan (George Blagden) nel monastero di Lindisfarne. Nella serie tv di Vikings, l'adorabile monachello Athelstan riesce a mostrare tante sfaccettature proprio della redazione dei testi negli scriptorium e il rapporto coi libri.
Athelstan (George Blagden) nel monastero di Lindisfarne. Nella serie tv di Vikings, l’adorabile monachello Athelstan riesce a mostrare tante sfaccettature proprio della redazione dei testi nello scriptorium e il rapporto coi libri. Uno dei miei personaggi preferitissimi.


La pergamena era ottenuta dalla pelle del bestiame e usata negli scriptoria monastici, bestiame che presto diventa una voce importante proprio dei monasteri, dove i monaci dovevano saper preparare la pelle, gli inchiostri, misurare gli spazi, allestire la pagina per il monaco miniatore, saper dettare al monaco scribano, gestire la calligrafia più adatta.

I monasteri gestivano un enorme traffico di manoscritti, realizzati su ordinazione. Non solo religiosi, ma anche a carattere laico, finché non si crea l’avvento dell’altra grande macchina di sapere: le università.

Fuori da ogni università c’erano i laboratori dei copistari: il professore lasciava una copia del suo libro di testo e gli studenti andavano lì a prendere una copia realizzata su materiale più infimo (la carta da stracci, per esempio). In questi negozietti si trovavano una dozzina di scrittori che copiavano ognuno una pezza del testo, in modo da assemblarlo velocemente per lo studente. Se siete stati all’università capite che questa è letteralmente la versione analogica di quello che c’è ancora oggi. Al posto dei copisti oggi ci sono le fotocopiatrici.

Ma dato che stiamo parlando dell’università e quindi dello sviluppo di un settore intellettuale che non era alle dipendenze della Chiesa, tempo poco si sviluppano nuove idee, o si sviluppano idee che erano andate perdute, che portano poi gli intellettuali, a zonzo per l’Europa sui loro asinelli, a parlarne tra di loro.

Fratello Gilbert (Pete Postlethwaite)in Dragonheart (1996), monachello appassionato di cronache arturiane che vaga per i regni con le sue carte e libri.
Fratello Gilbert (Pete Postlethwaite) in Dragonheart (1996), monachello appassionato di cronache arturiane che vaga per i regni con le sue carte.

Se avete confidenza col film de Il nome della Rosa, o siete entrati in una biblioteca medievale o quasi Rinascimentale come a Firenze, avrete notato due cose: una, più evidente, sono i tavoli enormi e i libri incatenati a essi. La seconda, meno evidente, che la struttura è pensata perché sia un dispositivo di controllo, dove chi è di pattuglia possa controllare subito la situazione.
In uno scriptorium, tutti sono seduti al piano inclinato a lavorare (al massimo a coppie, uno detta e l’altro scrive) e nella biblioteca, tutti sono seduti a leggere a distanza. Chi è in piedi, un seggio vuoto, due che parlano sono elementi di disturbo.
I libri erano tenuti lontani, perché è il bibliotecario che li preleva. Nei monasteri, i libri si chiedevano per motivi pii, in consultazione e si doveva sapere chi chiedeva e per quali motivi. Non potevano essere portati via né in prestito se non per motivi serissimi, importanti e con permessi certificati. Non esisteva, in pratica, la privacy.

Nelle biblioteche private invece?
C’era di tutto, da testi di medicina a testi di satira. Un elenco dei libri proibiti quindi permetteva di sapere subito se la persona era in possesso di qualcosa di sconveniente e quindi passare a multarlo e confiscare i beni incriminati.

Questo frullato di elenchi di libri proibiti, biblioteche segrete, collezioni private, un numero crescente di intellettuali anche laici contribuisce a modellare l’immagine più mediterranea del mago, cioè un uomo dotto, un po’ in là con gli anni, che vive circondato da libri mistici da cui drena chissà quali conoscenze lontane dai testi permessi. È anche da questo che ho tratto i miei maghi che si vedono soprattutto in C’era una volta in Paolo Sarpi.

Il peggior nemico dei libri

Un sistema quindi che tendeva a colpevolizzare, tra le altre, la lettura, la possessione di un libro, la ricerca esterna a testi concordati, e che tra i primi a essere ipercontrollati erano proprio i monaci stessi, quando erano al lavoro negli scriptorium e quando viaggiavano da un ente all’altro con dei titoli in saccoccia. Si doveva tracciare il percorso intellettuale di chi prendeva in prestito un titolo: il suo profilo, ricerche, lavoro. Se si trovava un testo non conforme, esso veniva sequestrato per essere distrutto. E “non conforme” non vuol dire uno scritto di versetti che inneggiano a party hard con Satana, vuol dire qualsiasi cosa no sia stato giudicato conforme: basti pensare che di Galeno, medico molto produttivo nello scrivere, abbiamo perso oltre la metà delle sue opere. Ed erano trattati di medicina.

Il catalogo diventa quindi un indice in costante aggiornamento, un dispositivo di controllo censorio e morale. Gli indici censori hanno avuto fluttuazioni importanti, si sono contratti e gonfiati nel corso del tempo. Le pratiche di controllo morale nella Chiesa non cominciano un giorno a caso, ma sono sempre presenti. Hanno solo cambiato nome e delegato compiti, partiamo in questo caso dal concilio di Nicea (325 d.C.) che vieta le tesi di Ario (Arianesimo) e arriviamo a oggi che, con una serie di cambi, soppressioni e deleghe ha cambiato nome e ridotto le funzioni.
E, senza andar troppo un là, basta guardare a che succede quando la religione viene usata come alibi compiacente per controllare le letture della gioventù, con il divieto di leggere Maus nelle scuole superiori di alcuni stati USA.

La questione quindi è che il libro sia la custodia materiale delle tesi al suo interno, tesi che vengono percepite come pericolose se escono dai binari tracciati dalle morali delle società in cui quel testo transita: ne Il nome della Rosa è molto presente questa cosa, dato che tutto ruota attorno a un testo perduto della Grecia del IV a.C. e la sua esistenza in contesti monastici di millecinquecento anni dopo.

Che sia un testo scientifico o un’ingenua novella con animali parlanti, se al suo interno qualcosa è percepito come pericoloso contro le intenzioni originali, il titolo viene classificato come pericoloso.

Il fatto che negli ultimi cento anni, e quando cioè gli organi della chiesa hanno meno controllo diretto rispetto ai secoli precedenti, quest’ansia sociale di controllo e di paura si sia scagliata contro titoli di puro intrattenimento di letteratura fantastica e di fumetti (sono diseducativi, portano alla stregoneria, ci sono donnine nude e adorazioni di divinità pagane ma hanno anche dei difetti) che di fatto non sono tesi di sociologia che mirano a squagliare l’ordine costituito, ma racconti che nel caso più presente a sé stesso contengono solo delle critiche strutturate, inquadra molto bene quest’aura di potere che incarna il libro.

Ecco perché il libro è un dispositivo da controllare con disperazione, considerato pericoloso nel suo contenuto quando aumenta la sua velocità di diffusione, e il suo rapporto con le masse, sia creative che di pubblico. Che è considerato minante dello status quo anche solo per essere ritenuto diseducativo, tacciato di essere deviante anche quando ci sembra solo la storia di un vampiro, forse un po’ troppo sexy, che vuole cambiare domicilio, o la storia di una bambina e del suo animale parlante e di un orso in armatura. Ecco perché ci si affolla a decidere cosa non è un libro, per riuscire ad arginare il suo potere, anche quando non sarebbe necessario.

Ed ecco perché i libri devono circolare sempre di più, essere composti sempre più. Ciclicamente, la natura di un libro e la definizione viene ridiscussa. Un vano tentativo di cacciare via ciò che sembra pericoloso apostrofandolo come non è un libro degno perché autoprodotto, civetta, fantastico, disegnato.

Il peggior nemico di un libro, di chi scrive e di chi legge è sempre e solo l’autorità censoria e morale.

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